I Romani non volevano che preservare la loro propria città, il loro proprio jus (poiché, per temperamento, concepivano tutto per il tramite del rito e del diritto). Ma, presso di loro, questa volontà di autenticità implicava logicamente il riconoscimento dell'Altro. È in questo che consiste la loro grandezza politica -- del che, tra parentesi, furono sempre perfettamente coscienti. E potremmo quasi affermare che l'impresa di conquista per Roma non fu che il «risvolto» di un'altra impresa, questa puramente difensiva. Non bisogna dìmenticare che dopo tutto il termine urbs viene da una radice indoeuropea che significa all'origine «rifugio protetto dalle acque». In un mondo in cui, a causa della rivoluzione neolitica, i popoli erano usciti dal loro isolamento ed entravano in un insieme complesso dì relazioni sempre più strette, l'imperium romano corrispondeva dunque a null'altro che all'allargamento progressivo della cinta protettrice dell'urbs. Costituiva il bastione dietro il quale il civis romanus era sicuro di poter vivere secondo il suo ritmo e il suo diritto, nella misura precisamente in cui gli altri, per necessaria differnziazione e logica reciprocità, godevano della stessa garanzia. Rifiuto organizzato e cosciente di ogni universalismo, di ogni reductio ad unum, l'imperium è tuttavia politico, cioè realista, e non utopico. Esso è gerarchizzato. Ciascuno vi conserva ii proprio jus, il proprio diritto: ogni popolo è libero di amministrare la sua città secondo la propria giustizia tradizionale. Ma nei rapporti che si stabiliscono tra individui di diverse città, o tra le città stesso, lo jus romanus prevale sempre sullo jus latinus, che a sua volta prevale su tutti gli altri. E là dove né lo jus romanus né lo jus latinus sono applicabili subentra lo jus gentium, astrazione prettamente romana per identificare ciò che sarebbe comune (o va comunque applicato) ai jura di tutti i popoli. In seno all'imperium Roma gode dunque di una primazia assoluta, che si esplica dei tutto naturalmente, e in perfetta giustizia, per il fatto che è essa che ha concepito e creato, che organizza e assicura quest'ordine in seno al quale ciascuno riceve il dovuto che gli è stato attribuito da una Storia che è fatum.Nel loro sogno d'artisti, i Greci avevano tentato anch'essi di realizzare la sintesi tra la fedeltà a ciò che erano e le esigenze fatali del loro impegnarsi in un mondo «allargato»... ma allargato soltanto nei limiti della ellenità. Si erano sforzati di conseguenza di «addomesticare» la guerra, ritualizzando l'aggressività naturale per mezzo di un'agoné (competizione) che abbracciava tutte le manifestazioni civili all'interno della polis. Con le Olimpiadi essi avevano ugualmente voluto assicurare, perlomeno periodicamente. un ordine panellenico. E la pace instaurata da quest'ordine sgorgava, significativamente, dalla messa in scena trionfale dell'agoné. Questo sogno ellenico, Roma l'ha vissuto e l'ha fatto vivere al mondo intero. I Romani non «addomesticano» la guerra. Tutto al contrario, essi la istituzionalizzano, sapendo che la guerra non è che uno dei due spettacoli perpetuamente offerti allo sguardo del dio bifronte. Perché la pace, la pax romana, è anch'essa istituzionalizzata. Essa non è più la contropartita di un gioco che permetta di «addomesticare» la guerra, ma la contropartita, all'interno dell'imperium, dell'ordine scaturito dalla guerra, ed anche dell'accettazione del principio dell guerra permanente tra i popoli dell'imperium e quelli che ancora non ne fanno parte. E poiché l'imperiurn rappresenta l'ordine consacrato dal fatum, molti popoli finiscono per fare appello ai Romani e domandare l'ammissione all`impero (salvo tentare di ritirarsene, una volta sistemati i propri affari: come i Galli, che fanno appello a Roma contro i Germani, quindi si ribellano, senza successo d'altronde, contro l'ordine cui essi stessi hanno fatto ricorso). «Regere imperio populos, Romane, memento / parcere victis ac debellare superbos»: tale la definizione che il poeta gallico che fu Virgilio propone della missione che i Romani si erano dati. Definizione tanto giusta che, quando Roma sarà sparita, i popoli d'Europa sentiranno vivamente ancora la nostalgia dell'ordine romano, e tenteranno vanamente, con tutti i mezzi, di ristabilirlo. Roma diventerà allora sinonimo di «ordine politico», e si darà il nome di Caesar, l'imperator per eccelienza, ai titolari del potere sovrano incaricati di assicurare l'ordine. Si potrebbe forse obbiettare che l'imperium condusse di fatto a quell'universalismo, a quel caos etnico che intendeva ricusare, e, d'altra parte, che esso non poté mantenersi che per qualche secolo, prima di decadere e sparire. «Orbi fecisti quod prius urbis erat», cantava in un inno a Roma un altro poeta celtico che si era dato il nome di Rutilio Numaziano, [alias]e che viveva sotto Onorio. Il poeta aveva ragione, ma si potrebbe aggiungere che Roma non l'aveva certo voluto. Tutto nella storia ha la sua misura. Nulla è eterno, né assoluto. Si tratta sempre di piegare la storia ad una volontà. di cercare di darle una forma. Nella breve giornata di storia che hanno vissuto, i Romani si sono affermati, rispetto e contro tutti, realizzando il solo progetto di imperium esistente. Essi l'hanno fatto tanto a lungo quanto a lungo ci sono stati. Giacché l'imperium non decade veramente se non quando non vi sono più Romani, se non quando «Roma non è più in Roma». Non ci si accorse forse subito che gli ultimi discendenti delle gentes erano morti sui campi di battaglia. O forse ce ne si accorse. Ma lo si nascose con cura. Si fece finta di credere che coloro che, ormai, si davano il nome di Romani, lo fossero davvero. L'ultimo dei Romani, lui, sapeva probabilmente ciò che ne era stato. Egli non ignorava la pietosa finzione dell'indomani, e seppe riderne a suo modo, crudele, sovranamente pieno di disprezzo, e tuttavia di compassione. Forse, quando elevò il suo cavallo alla dignità di console o di senatore, voleva far sapere sottilmente che dal momento in cui non vi erano più Romani autentici, tutti potevano essere Romani... Con la rivoluzione industriale, l'umanità è entrata oggi in un periodo di planetarizzazione. Nessun popolo può sottrarsi a questa prospettiva planetaria, o sognare di un impossibile isolamento. Un ordine planetario è obbligatorio. Esso è fatale, a più o meno breve scadenza. La Grande Politica di domani non potrà essere concepita e perseguita altro che avendo ciò che Ernst Jünger chiama il Weltstaat, l'ordine mondiale, come movente e come fine. I sintomi si manifestano già: Società delle Nazioni, poi Nazioni Unite, sul piano dell'utopia; impero sovietico, impero americano nei fatti. Ma tutto porta a credere che gli Stati Uniti, come l'Unione Sovietica, non siano capaci di essere la Roma di domani. Questi «blocchi», che cercano di organizzare come possono i mezzi di potenza messi a loro disposizione dalla rivoluzione tecnologica, ricordano piuttosto l'Egitto dei faraoni e le teocrazie della Mezzaluna fertile. Resta nondimeno il fatto che la planetarizzazione che si opera esige un ordine cosmico. Quest'ordine sarà «imperiale» o al contrario «repubblicano» nel senso francese del termine, cioè egualitarista? Nessuno può dirlo, perché l'avvenire storico è libero. Possiamo soltanto impegnarci in un senso o nell'altro. La soluzione ugualitaria, che sbocca nella «Repubblica universale», implica la riduzione ad unum dell'umanità, l'avvento di un «tipo universale» e l'uniformizzazione globale. La soluzione «imperiale», lo ripetiamo, è gerarchica. Se la libertà, nella dialettica ugualìtaria, non è che un assoluto che si oppone ad un altro assoluto (la negazione della libertà), nella dialettica «imperiale», essa non è che un relativo, direttamente legato alla nozione di responsabilità sociale. Nell'ímperium, l'assoluto è il diritto del migliore secondo la virtù dell'umanità dei suo tempo. Ma l'imperium è anche il solo mezzo di preservare le differenze dentro (e attraverso) una prospettiva planetaria, tramite un unicuique suum che riconosce implicitamente il fatto fondamentale dell'ineguaglianza dei valori e delle identità. Da uno stretto punto di vista psicologico, l'avversione che manifestano molti autonomisti e regionalisti per l'idea «repubblicana» egualitaria, è perfettamente giustificata. Essi infatti si ingannerebbero gravemente immaginando che la sostituzione di un ordine «universalista» all'ordine esistente basterebbe a risolvere i loro problemi. Perché la «Repubblica» concepita dagli uomini del 1789 non è altro che la prefigurazione, a livello nazionale, di uno Stato mondiale egualitario, più riduttore e livellatore ancora di quanto i giacobini mai siano stati.
Giorgio Locchi
Da L'Uomo Libero n.9, 1/1/1982.
www.uomo-libero.com
sabato 22 dicembre 2007
Nazione e Impero. Di Giorgio Locchi.
Nazione e Impero
Di Giorgio Locchi
L'idea di nazione in Francia, Italia e Germania - La struttura politica indoeuropea e quella dei Romani - Salvaguardia delle diversità in un'organicità sovranazionale.
Non si riflette mai abbastanza al fatto che vi sono due maniere di «avvertire», di pensare inconsciamente l'idea di nazione, due maniere che scaturiscono direttamente dalla dicotomia caratterizzante la storia dell'Europa occidentale. Se ci accordiamo -- salvo meglio precisare il concetto in seguito -- di considerare la nazione come una comunità fondata su (e da) una lingua, una civiltà e una «sorte comune», ci si accorge immediatamente. per esempio, che nel caso della Francia la nazione è nata dall'impresa laboriosa di uno Stato («i quaranta re...»), mentre nel caso della Germania o dell'Italia lo Stato ha costituito l'esito, la «traduzione» in termini politici, di una coscienza nazionale che si era infine destata. Ciò che potremmo chiamare una «nazione-effetto» si oppone così a una «nazione-causa». Nell'«esagono» francese di cui i Romani, con la loro amministrazione, avevano per primi tracciato i contorni approssimativi, popolazioni ben diverse si erano sovrapposte o si affiancavano dopo la decomposizione dell'impero. Nella stessa epoca, ricordiamolo, il concetto di gentes si rivelava insufficiente a cogliere le nuove realtà etnopolitiche, e lasciava il posto poco a poco a quello di nationes. Tutti sanno come in seguito una di queste «nazioni» comprese nell'Esagono, la nazione franca, dovesse ridurre le altre ed assimilarle, imponendo loro, talvolta con la forza, la sua lingua, la sua concezione del diritto e la sua civiltà. Questo processo di assimilazione non si è compiuto senza «sbavature» ed esse sono ancora perfettamente percepibili nella realtà politica «francese» di oggi. E' evidente nondimeno che le antiche «nazioni» non-franche, anche quando ne sussistono emanazioni folcloristiche tuttora viventi, sono private, piaccia o no, di ogni vis politica. foss'anche potenziale. Ciò è talmente vero che i gruppi autonomisti non possono pensare l'autonomia delle loro etnie in una prospettiva in cui gli Stati esistenti fossero conservati (cioè nell'ordine politico internazionale attuale), e invece sono obbligati a proiettare l'idea autonomista in una prospettiva futura, europea (europeista) secondo alcuni, universale (universalista) secondo altri.Senza esserne talvolta pienamente coscienti, riconoscono così che essi non potrebbero essere realmente differenziati, cioè separati in rapporto alla Francia, fuorché un mondo in cui non vi fosse più né Francia, né d'altronde Inghilterra, Italia, Germania, Belgio o Paesi Bassi. Se si esamina ora il caso della Germania o dell'Italia, ci si accorge come Il panorama storico che si presenta ai nostri occhi sia rigorosamente differente, come si caratterizzi per tratti antitetici al panorama francese. I re franchi avevano in un certo senso «rovesciata» l'eredità politica romana. Essendosi separati dall'Impero a partire dall'843 (firma del trattato di Verdun). essi avevano parimenti rigettato l'idea imperiale, per votarsi ad un'impresa mirante alla riduzione al modello franco delle realtà etnopolitiche allora comprese nell'attuale territorio francese. Fu ciò che si può chiamare il regnum: il potere politico non organizzava più nazioni (prese in quanto tali nell'ambito dell'Impero) ma classi, certo originate più o meno dalle «nazioni», ma che di tale origine avrebbero rapidamente perso il ricordo. Al di là dei Vosgi, al contrario, presso i Teutschen, così come in Italia, l'idea di imperium restava presente, non cessava di assillare gli spiriti e dominava tutte le imprese politiche.Quest'idea, bisogna dirlo, non aveva allora che un carattere perfettamente irrealista. Il Sacro Romano Impero germanico (Heiliges Romisches Reich Deutscher Nation) non ebbe affatto più dell'apparenza di se stesso, quantunque l'idea imperiale fosse ancora abbastanza potente per imporre una «struttura» identica al destino dei popoli che ad essa si richiamavano. Dalle antiche nationes si formarono nel suo seno altre nazioni, ma esse non poterono mai acquisire una vera e propria coscienza politica. perché l'idea imperiale ereditata da Roma vi si opponeva. Così, Dante, per il quale l'uomo italiano si afferma in quanto fatto di lingua e di civiltà, invoca con tutti i suoi voti il veltro (il dux), cioè il Sacro Romano Imperatore, che è un tedesco. Dante, filo-imperiale, ma pur sempre fiorentino. vede nei suoi vicini pisani il «vituperio delle genti». Per lui l'Italia non è che «il bel paese ove il sì risuona». A quest'epoca, non vi è dunque una Germania, un'Italia, ma solo dei Tedeschi, solo degli Italiani. Perché una coscienza nazionale politica italiana o tedesca nascesse, era necessario che l'«apparenza» imperiale stessa svanisse. E' ciò che si verificò, in modo lento e impercettibile, sotto i colpi di una Storia sempre brutale per coloro che si ostinano in un sogno. La guerra dei trent'anni, le dominazioni straniere che fecero dell'Italia un campo di battaglia umiliato e sanguinante, marcano i punti culminanti di questo processo. Ma ciò era ancora insufficiente. Bisognava ancora che sparisse e crollasse tutto ciò che, nei fatti, era legato per opposizione all'Impero: in primo luogo la chiesa cattolica, che ne era l'antitesi intima, e per altro verso il Regno, che ne era l'antititesi esterna. Il che si produsse sotto l'influenza della rivoluzione del 1789, che costituì il compimento di un'evoluzione storica particolare della Francia; poi del Romanticismo, che al contrario reagì (in Germania almeno) alla diffusione delle idee rivoluzionarie. Nato da una negazione assoluta dell'idea di Impero, il regno di Francia aveva affermato, implicitamente come nei fatti, la supremazia di una natio sulle altre. Un'aristocrazia feudale di orígine germanica vi giocava, all'inizio, un ruolo abbastanza analogo a quello delle gentes romane nella nascita della civitas. Ma questa aristocrazia, per il fatto di non esprimere il potere sovrano, perse a poco a poco i suoi contorni etnici e la sua coscienza storica. Ciò avvenne in modo abbastanza complesso. L'aristocrazia francese si era trovata ad essere obbligata ad assimilare le aristocrazie delle altre nationes incorporate nell'Esagono. Ora, queste aristocrazie perpetuavano tendenze centrifughe apposte al tentativo reale di centralizzazione. In base a ciò, i re dovettero combattere la classe aristocratica, o perlomeno opporsi a talune sue pretese, anche se questa classe era stata in origìne uno dei pilastri del potere reale. Sappiamo cosa ne deriva. Avendo Luigi XIV definitivamente privata l`aristocrazia dei suoi poteri, avendola svuotata del suo significato politico e avendola trasformata in classe parassitaria grazie alle seduzioni di quella prigione dorata che fu la corte di Versailles, la rivoluzione diventava inevitabile. La rivoluzione francese tu essenzialmente antiaristocratica, prima di essere antimonarchica. al punto che non è esagerato dire che i «grand ancêtres» del 1789 non fecero in fin dei conti che spingere fino al suo termine naturale un processo che i «quaranta re» avevano già sviluppato durante i secoli. Questo amalgama che era la nazione francese, entrato nei fatti con la Rivoluzione, non fece che prendere atto di ciò che la classe privilegiata aveva perduto: con le proprie responsabilità, aveva perduto anche la sua giustificazione. Si arrivò così al concetto di Stato-nazione, che andava poco a poco ad imporsi, lungo il corso delle guerre rivoluzionarie, alla coscienza dei popoli europei. Formata infine, o più esattamente creata, dallo Stato, la «nazione» francese poteva ormai rivendicare la proprietà di questo medesimo Stato. Fu Ia repubblica francese. Di fronte a questa nazione trancese (e tanto più che essa era divenuta conquistatrice, sotto Napoleone) i popoli d'Europa, essendosi riconosciuti in quanto nazioni, vollero naturalmente esprimere parimenti il loro proprio Stato. In Germania e in Italia, questo movimento politico di «indipendenza» e di «unificazione nazionale» si confuse, sul piano delle idee, col romanticismo. Ma, siccome l'eredità storica era del tutto differente da quella della Francia, molti romantici italiani e tedeschi concepirono la nazione, e il diritto della nazione ad esprimersi in quanto Stato, in una forma radicalmente opposta alla concezione francese. Vi fu certo una corrente romantica (italiana e tedesca) che accetto le idee francesi tali quali erano, ovvero in quanto esse portavano ad un superiore grado di coscienza la volontà egualitaria cristiana. Non è evidenternente di questa corrente che noi trattiamo qui, ma del romanticismo più autenticamente italiano e tedesco, da cui sgorga, fino alla prima metà di questo secolo il «destino parallelo» dei popoli di questi due paesi. La nazione concepita dalla rivoluzione francese è una nazione democratica, fondamentalmente centralista, egualitaria e «anticlassista», seppure il suo egualitarismo ed «anticlassismo» non apparissero che sotto forma di un rilievo negatìvo, figurante nella legge. Al contrario la nazione dei «romantici» (prendiamo questo termine nel senso ristretto sopra specificata) non è di per se stessa né egualitaria né demo cratica né centralista. Ugualmente, dal punto di vista della logica «rivoluzionaria», una nazione, ogni nazione, è uguale di diritto a un'altra, a tutte le altre. Non è così invece nella concezione romantica italiana o tedesca, e lo stesso linguaggio si sforza di esprimere la differenza (là dove i francesi parlerebbero di nation, i tedeschi parleranno piuttosto di Volk). E così che il pur clericale Vincenzo Gioberti proclama a gran voce il primato degli italiani, mentre Johann Gottlieb Fichte [alias] vanta l'unicità del popolo tedesco, unico Volk in un mondo ove non rimangono altro che masse. Tutto ciò si spiega abbastanza facilmente. In Francia, il passaggio dalla nozione di Impero a quella di Regno comportava già, nei fatti, una sorta di «restringimento» dell'orizzonte geografico e mentale. II risultato obbligatorio di un tale ripiegamento su se stessi era la«France seule». E questo ripiego implicava anche, a più o meno lungo termine, che fosse riconosciuta l'eguaglianza con le altre nazioni, con l'Altro tout court. Al contrario, la fedeltà alla nozione di Impero doveva necessariamente sfociare nella visione di un vero e proprio «cosmos politico» comprendente tutti i popoli in un'organizzazione gerarchica. Nel momento in cui la coscienza nazionale dei popoli faceva la sua entrata sanguinosa nella storia d'Europa, Ludwig van Beethoven fa esplodere lo spirito del suo tempo componendo quella meravigliosa Nona Sinfonia [CD]che è l'inno alla gioia di tutta un'umanità la cui storia è divenuta planetaria. Lo stesso Beethoven straccia la dedica della sua Eroica quando Buonaparte viene cancellato da Napoleone, ma, d'altro lato. è assolutamente incapace di immaginare il canto del ritrovarsi dei popoli riuniti nel nuovo cosmo, senza un corifeo che lo susciti, lo conduca e l'organizzi. Ritroviamo qui, inestricabilmente mischiate, le «due anime nemiche» che abitavano il petto dei romantici... Ritorniamo all'idea romana di imperium, ed alla traduzione politica che ne è stata data. Le prime società indoeuropee, quali possiamo conoscerle tramite gli studi comparativi, rendono manifesto un contrasto abbastanza strano tra la severa disciplina esistente in seno alla cellula sociopolitica di base, la «famiglia patriarcale», il clan, e la tendenza invece abbastanza pronunciata ad una certa anarchia per tutto ciò che concerne i rapporti di queste cellule fra di loro. Di fatto, questo contrasto, che è strettamente legato alla dinamica della storia indoeuropea, non ci appare tale che in una prospettiva moderna. La realtà sociopolitica dell'epoca lontana (gli inizi del neolitico), in cui gli indoeuropei prendono posto nella storia, non è altro in effetti che quella di un gruppo ristretto: il clan. E i rapporti tra i clan sono pressapoco della stessa natura dei rapporti che si stabiliranno, in altre epoche, tra le città o tra gli Stati. Da ciò l'impressione, piuttosto illusoria, di «anarchia» che si può ricavare quando si prenda in considerazione l'unità etnica degli indoeuropei e si cerchi di sapere a cosa assomigliasse la loro società. Ora, non esisteva una società indoeuropea. Gli indoeuropei non concepivano sul piano sociopolitico alcuna grande unità, per l'eccellente ragione che essi non avevano (e non potevano avere) coscienza di ciò che, a nostri occhi. faceva la loro unità. A questa coscienza, gli indoeuropei non poterono pervenire che progressivamente, quando, in un'epoca molto più tarda, cominciarono a uscire dal loro isolamento e si trovarono a confrontarsi con altre etnie, con altre civiltà. Ciò non avvenne d'altronde con facilità, e quasi mai completamente. Le grandi coalizioni «supertribali» che si formarono in occasione di spedizioni migratorie e dei primi insediamenti in nuovi paesi, in mezzo a popoli differenti, furono generalmente di breve durata, e tesero a dissolversi. L'istituzione del potere regale, che, all'origine, assicurava unicamente l'organizzazione e la disciplina dell'orda nel corso dei suoi spostamenti (il re essendo etimologicamente «colui che mostra la strada da seguire»), non ebbe all'inizio che un carattere elettivo e provvisorio. Quand'essa tese, per sua propria natura, a consolidarsi ed a divenire ereditaria, incontrò sempre la resistenza dei capi dei clan, una volta completata la conquista. E' per questa ragione che la storia iniziale dei gruppi indoeuropei emigrati sotto altri cieli si confonde spesso con la lenta degradazione di un'autorità monarchica e la «ri-atomizzazione» del gruppo. Fu il caso, segnatamente, dei Greci e dei Celti. Altrove, l'istituzionalizzazione della monarchia si verificò, ma a spese di tutta una tradizione indoeuropea (tradizione culturale, ma anche genetica). Ciò avvenne presso i Nesos, che persero il loro nome per diventare gli Ittiti, e presso certe tribù germaniche che esaurirono il loro slancio sulle rive del Mediterraneo. In generale, i popoli indoeuropei hanno perfettamente percepito la necessità di preservare la propria originalità, pur accettando le conseguenze dell'allargamento dell'orizzonte culturale e geopolitico che imponeva loro il trionfo progressivo della «rivoluzione neolitica». Ma, limitandoci al mondo antico, soltanto i Romani sono riusciti a operare una sintesi tra perennità, fedeltà a se stessi ed alle proprie origini, ed accettazione piena e intiera della loro «intricazione cosmica». Questa sintesi porta un nome, inciso nella storia in lettere capitali: l'imperium. Diciamolo subito: la nozione di imperium non deve essere confusa con quella di Impero, fosse anche romano. Non c'è alcun dubbio in effetti, che 1'imperium ha trovato la sua verità e la sua più perfetta realizzazione nello sforzo di costruzione della Roma repubblicana, più che nell'impresa di mantenimento dell'Impero postgiuliano. Di fatto, l'imperium riflette una volontà di ordine cosmico, ed è quest'ordine che organizza gerarchicamente le gentes. In teoria come in pratica. 1'imperium si situa agli antipodi di ogni «universalismo». Esso non intende affatto ridurre le umanità a una sola e medesima umanità, ma cerca al contrario di preservare le diversità in un mondo necessariamente votato all'unificazione.
Di Giorgio Locchi
L'idea di nazione in Francia, Italia e Germania - La struttura politica indoeuropea e quella dei Romani - Salvaguardia delle diversità in un'organicità sovranazionale.
Non si riflette mai abbastanza al fatto che vi sono due maniere di «avvertire», di pensare inconsciamente l'idea di nazione, due maniere che scaturiscono direttamente dalla dicotomia caratterizzante la storia dell'Europa occidentale. Se ci accordiamo -- salvo meglio precisare il concetto in seguito -- di considerare la nazione come una comunità fondata su (e da) una lingua, una civiltà e una «sorte comune», ci si accorge immediatamente. per esempio, che nel caso della Francia la nazione è nata dall'impresa laboriosa di uno Stato («i quaranta re...»), mentre nel caso della Germania o dell'Italia lo Stato ha costituito l'esito, la «traduzione» in termini politici, di una coscienza nazionale che si era infine destata. Ciò che potremmo chiamare una «nazione-effetto» si oppone così a una «nazione-causa». Nell'«esagono» francese di cui i Romani, con la loro amministrazione, avevano per primi tracciato i contorni approssimativi, popolazioni ben diverse si erano sovrapposte o si affiancavano dopo la decomposizione dell'impero. Nella stessa epoca, ricordiamolo, il concetto di gentes si rivelava insufficiente a cogliere le nuove realtà etnopolitiche, e lasciava il posto poco a poco a quello di nationes. Tutti sanno come in seguito una di queste «nazioni» comprese nell'Esagono, la nazione franca, dovesse ridurre le altre ed assimilarle, imponendo loro, talvolta con la forza, la sua lingua, la sua concezione del diritto e la sua civiltà. Questo processo di assimilazione non si è compiuto senza «sbavature» ed esse sono ancora perfettamente percepibili nella realtà politica «francese» di oggi. E' evidente nondimeno che le antiche «nazioni» non-franche, anche quando ne sussistono emanazioni folcloristiche tuttora viventi, sono private, piaccia o no, di ogni vis politica. foss'anche potenziale. Ciò è talmente vero che i gruppi autonomisti non possono pensare l'autonomia delle loro etnie in una prospettiva in cui gli Stati esistenti fossero conservati (cioè nell'ordine politico internazionale attuale), e invece sono obbligati a proiettare l'idea autonomista in una prospettiva futura, europea (europeista) secondo alcuni, universale (universalista) secondo altri.Senza esserne talvolta pienamente coscienti, riconoscono così che essi non potrebbero essere realmente differenziati, cioè separati in rapporto alla Francia, fuorché un mondo in cui non vi fosse più né Francia, né d'altronde Inghilterra, Italia, Germania, Belgio o Paesi Bassi. Se si esamina ora il caso della Germania o dell'Italia, ci si accorge come Il panorama storico che si presenta ai nostri occhi sia rigorosamente differente, come si caratterizzi per tratti antitetici al panorama francese. I re franchi avevano in un certo senso «rovesciata» l'eredità politica romana. Essendosi separati dall'Impero a partire dall'843 (firma del trattato di Verdun). essi avevano parimenti rigettato l'idea imperiale, per votarsi ad un'impresa mirante alla riduzione al modello franco delle realtà etnopolitiche allora comprese nell'attuale territorio francese. Fu ciò che si può chiamare il regnum: il potere politico non organizzava più nazioni (prese in quanto tali nell'ambito dell'Impero) ma classi, certo originate più o meno dalle «nazioni», ma che di tale origine avrebbero rapidamente perso il ricordo. Al di là dei Vosgi, al contrario, presso i Teutschen, così come in Italia, l'idea di imperium restava presente, non cessava di assillare gli spiriti e dominava tutte le imprese politiche.Quest'idea, bisogna dirlo, non aveva allora che un carattere perfettamente irrealista. Il Sacro Romano Impero germanico (Heiliges Romisches Reich Deutscher Nation) non ebbe affatto più dell'apparenza di se stesso, quantunque l'idea imperiale fosse ancora abbastanza potente per imporre una «struttura» identica al destino dei popoli che ad essa si richiamavano. Dalle antiche nationes si formarono nel suo seno altre nazioni, ma esse non poterono mai acquisire una vera e propria coscienza politica. perché l'idea imperiale ereditata da Roma vi si opponeva. Così, Dante, per il quale l'uomo italiano si afferma in quanto fatto di lingua e di civiltà, invoca con tutti i suoi voti il veltro (il dux), cioè il Sacro Romano Imperatore, che è un tedesco. Dante, filo-imperiale, ma pur sempre fiorentino. vede nei suoi vicini pisani il «vituperio delle genti». Per lui l'Italia non è che «il bel paese ove il sì risuona». A quest'epoca, non vi è dunque una Germania, un'Italia, ma solo dei Tedeschi, solo degli Italiani. Perché una coscienza nazionale politica italiana o tedesca nascesse, era necessario che l'«apparenza» imperiale stessa svanisse. E' ciò che si verificò, in modo lento e impercettibile, sotto i colpi di una Storia sempre brutale per coloro che si ostinano in un sogno. La guerra dei trent'anni, le dominazioni straniere che fecero dell'Italia un campo di battaglia umiliato e sanguinante, marcano i punti culminanti di questo processo. Ma ciò era ancora insufficiente. Bisognava ancora che sparisse e crollasse tutto ciò che, nei fatti, era legato per opposizione all'Impero: in primo luogo la chiesa cattolica, che ne era l'antitesi intima, e per altro verso il Regno, che ne era l'antititesi esterna. Il che si produsse sotto l'influenza della rivoluzione del 1789, che costituì il compimento di un'evoluzione storica particolare della Francia; poi del Romanticismo, che al contrario reagì (in Germania almeno) alla diffusione delle idee rivoluzionarie. Nato da una negazione assoluta dell'idea di Impero, il regno di Francia aveva affermato, implicitamente come nei fatti, la supremazia di una natio sulle altre. Un'aristocrazia feudale di orígine germanica vi giocava, all'inizio, un ruolo abbastanza analogo a quello delle gentes romane nella nascita della civitas. Ma questa aristocrazia, per il fatto di non esprimere il potere sovrano, perse a poco a poco i suoi contorni etnici e la sua coscienza storica. Ciò avvenne in modo abbastanza complesso. L'aristocrazia francese si era trovata ad essere obbligata ad assimilare le aristocrazie delle altre nationes incorporate nell'Esagono. Ora, queste aristocrazie perpetuavano tendenze centrifughe apposte al tentativo reale di centralizzazione. In base a ciò, i re dovettero combattere la classe aristocratica, o perlomeno opporsi a talune sue pretese, anche se questa classe era stata in origìne uno dei pilastri del potere reale. Sappiamo cosa ne deriva. Avendo Luigi XIV definitivamente privata l`aristocrazia dei suoi poteri, avendola svuotata del suo significato politico e avendola trasformata in classe parassitaria grazie alle seduzioni di quella prigione dorata che fu la corte di Versailles, la rivoluzione diventava inevitabile. La rivoluzione francese tu essenzialmente antiaristocratica, prima di essere antimonarchica. al punto che non è esagerato dire che i «grand ancêtres» del 1789 non fecero in fin dei conti che spingere fino al suo termine naturale un processo che i «quaranta re» avevano già sviluppato durante i secoli. Questo amalgama che era la nazione francese, entrato nei fatti con la Rivoluzione, non fece che prendere atto di ciò che la classe privilegiata aveva perduto: con le proprie responsabilità, aveva perduto anche la sua giustificazione. Si arrivò così al concetto di Stato-nazione, che andava poco a poco ad imporsi, lungo il corso delle guerre rivoluzionarie, alla coscienza dei popoli europei. Formata infine, o più esattamente creata, dallo Stato, la «nazione» francese poteva ormai rivendicare la proprietà di questo medesimo Stato. Fu Ia repubblica francese. Di fronte a questa nazione trancese (e tanto più che essa era divenuta conquistatrice, sotto Napoleone) i popoli d'Europa, essendosi riconosciuti in quanto nazioni, vollero naturalmente esprimere parimenti il loro proprio Stato. In Germania e in Italia, questo movimento politico di «indipendenza» e di «unificazione nazionale» si confuse, sul piano delle idee, col romanticismo. Ma, siccome l'eredità storica era del tutto differente da quella della Francia, molti romantici italiani e tedeschi concepirono la nazione, e il diritto della nazione ad esprimersi in quanto Stato, in una forma radicalmente opposta alla concezione francese. Vi fu certo una corrente romantica (italiana e tedesca) che accetto le idee francesi tali quali erano, ovvero in quanto esse portavano ad un superiore grado di coscienza la volontà egualitaria cristiana. Non è evidenternente di questa corrente che noi trattiamo qui, ma del romanticismo più autenticamente italiano e tedesco, da cui sgorga, fino alla prima metà di questo secolo il «destino parallelo» dei popoli di questi due paesi. La nazione concepita dalla rivoluzione francese è una nazione democratica, fondamentalmente centralista, egualitaria e «anticlassista», seppure il suo egualitarismo ed «anticlassismo» non apparissero che sotto forma di un rilievo negatìvo, figurante nella legge. Al contrario la nazione dei «romantici» (prendiamo questo termine nel senso ristretto sopra specificata) non è di per se stessa né egualitaria né demo cratica né centralista. Ugualmente, dal punto di vista della logica «rivoluzionaria», una nazione, ogni nazione, è uguale di diritto a un'altra, a tutte le altre. Non è così invece nella concezione romantica italiana o tedesca, e lo stesso linguaggio si sforza di esprimere la differenza (là dove i francesi parlerebbero di nation, i tedeschi parleranno piuttosto di Volk). E così che il pur clericale Vincenzo Gioberti proclama a gran voce il primato degli italiani, mentre Johann Gottlieb Fichte [alias] vanta l'unicità del popolo tedesco, unico Volk in un mondo ove non rimangono altro che masse. Tutto ciò si spiega abbastanza facilmente. In Francia, il passaggio dalla nozione di Impero a quella di Regno comportava già, nei fatti, una sorta di «restringimento» dell'orizzonte geografico e mentale. II risultato obbligatorio di un tale ripiegamento su se stessi era la«France seule». E questo ripiego implicava anche, a più o meno lungo termine, che fosse riconosciuta l'eguaglianza con le altre nazioni, con l'Altro tout court. Al contrario, la fedeltà alla nozione di Impero doveva necessariamente sfociare nella visione di un vero e proprio «cosmos politico» comprendente tutti i popoli in un'organizzazione gerarchica. Nel momento in cui la coscienza nazionale dei popoli faceva la sua entrata sanguinosa nella storia d'Europa, Ludwig van Beethoven fa esplodere lo spirito del suo tempo componendo quella meravigliosa Nona Sinfonia [CD]che è l'inno alla gioia di tutta un'umanità la cui storia è divenuta planetaria. Lo stesso Beethoven straccia la dedica della sua Eroica quando Buonaparte viene cancellato da Napoleone, ma, d'altro lato. è assolutamente incapace di immaginare il canto del ritrovarsi dei popoli riuniti nel nuovo cosmo, senza un corifeo che lo susciti, lo conduca e l'organizzi. Ritroviamo qui, inestricabilmente mischiate, le «due anime nemiche» che abitavano il petto dei romantici... Ritorniamo all'idea romana di imperium, ed alla traduzione politica che ne è stata data. Le prime società indoeuropee, quali possiamo conoscerle tramite gli studi comparativi, rendono manifesto un contrasto abbastanza strano tra la severa disciplina esistente in seno alla cellula sociopolitica di base, la «famiglia patriarcale», il clan, e la tendenza invece abbastanza pronunciata ad una certa anarchia per tutto ciò che concerne i rapporti di queste cellule fra di loro. Di fatto, questo contrasto, che è strettamente legato alla dinamica della storia indoeuropea, non ci appare tale che in una prospettiva moderna. La realtà sociopolitica dell'epoca lontana (gli inizi del neolitico), in cui gli indoeuropei prendono posto nella storia, non è altro in effetti che quella di un gruppo ristretto: il clan. E i rapporti tra i clan sono pressapoco della stessa natura dei rapporti che si stabiliranno, in altre epoche, tra le città o tra gli Stati. Da ciò l'impressione, piuttosto illusoria, di «anarchia» che si può ricavare quando si prenda in considerazione l'unità etnica degli indoeuropei e si cerchi di sapere a cosa assomigliasse la loro società. Ora, non esisteva una società indoeuropea. Gli indoeuropei non concepivano sul piano sociopolitico alcuna grande unità, per l'eccellente ragione che essi non avevano (e non potevano avere) coscienza di ciò che, a nostri occhi. faceva la loro unità. A questa coscienza, gli indoeuropei non poterono pervenire che progressivamente, quando, in un'epoca molto più tarda, cominciarono a uscire dal loro isolamento e si trovarono a confrontarsi con altre etnie, con altre civiltà. Ciò non avvenne d'altronde con facilità, e quasi mai completamente. Le grandi coalizioni «supertribali» che si formarono in occasione di spedizioni migratorie e dei primi insediamenti in nuovi paesi, in mezzo a popoli differenti, furono generalmente di breve durata, e tesero a dissolversi. L'istituzione del potere regale, che, all'origine, assicurava unicamente l'organizzazione e la disciplina dell'orda nel corso dei suoi spostamenti (il re essendo etimologicamente «colui che mostra la strada da seguire»), non ebbe all'inizio che un carattere elettivo e provvisorio. Quand'essa tese, per sua propria natura, a consolidarsi ed a divenire ereditaria, incontrò sempre la resistenza dei capi dei clan, una volta completata la conquista. E' per questa ragione che la storia iniziale dei gruppi indoeuropei emigrati sotto altri cieli si confonde spesso con la lenta degradazione di un'autorità monarchica e la «ri-atomizzazione» del gruppo. Fu il caso, segnatamente, dei Greci e dei Celti. Altrove, l'istituzionalizzazione della monarchia si verificò, ma a spese di tutta una tradizione indoeuropea (tradizione culturale, ma anche genetica). Ciò avvenne presso i Nesos, che persero il loro nome per diventare gli Ittiti, e presso certe tribù germaniche che esaurirono il loro slancio sulle rive del Mediterraneo. In generale, i popoli indoeuropei hanno perfettamente percepito la necessità di preservare la propria originalità, pur accettando le conseguenze dell'allargamento dell'orizzonte culturale e geopolitico che imponeva loro il trionfo progressivo della «rivoluzione neolitica». Ma, limitandoci al mondo antico, soltanto i Romani sono riusciti a operare una sintesi tra perennità, fedeltà a se stessi ed alle proprie origini, ed accettazione piena e intiera della loro «intricazione cosmica». Questa sintesi porta un nome, inciso nella storia in lettere capitali: l'imperium. Diciamolo subito: la nozione di imperium non deve essere confusa con quella di Impero, fosse anche romano. Non c'è alcun dubbio in effetti, che 1'imperium ha trovato la sua verità e la sua più perfetta realizzazione nello sforzo di costruzione della Roma repubblicana, più che nell'impresa di mantenimento dell'Impero postgiuliano. Di fatto, l'imperium riflette una volontà di ordine cosmico, ed è quest'ordine che organizza gerarchicamente le gentes. In teoria come in pratica. 1'imperium si situa agli antipodi di ogni «universalismo». Esso non intende affatto ridurre le umanità a una sola e medesima umanità, ma cerca al contrario di preservare le diversità in un mondo necessariamente votato all'unificazione.
giovedì 20 dicembre 2007
Nietszche. L'Anticristiano - Il radicalismo antimoderno.
F. Nietszche L'Anticristiano - Il radicalismo antimoderno
"[Il grande stile] ha in comune con la grande passione il fatto che disdegna di piacere; che si scorda di convincere; che comanda; che 'vuole'... Riuscire a dominare il caos che si è; costringere il proprio caos a diventare forma: diventare logici, semplici, univoci, diventare matematica, 'legge': ecco la grande ambizione. Ma essa ripugna; niente eccita più l'amore per questi violatori [Gewaltmenshen] - intorno a loro grava una solitudine, un silenzio, una paura come di fronte a un grande sacrilegio.” (tr. it di Franco G. Freda, in "L'anticristiano", Ar, 2004)Il radicalismo antimoderno1. Ogni epoca ha la propria nota dominante, che imprime, per simbiosi — e, a volte, per rifarle il verso — a ogni cosa. La modernità vive del postulato della pluralità. Le interpretazioni devono essere molteplici, la ricerca non avere fine... Così, la ricezione di Nietzsche, nel Novecento, invece che essere comprensione di un enunciato allusivo ma di univoco intendimento (nella sua spietata monotonia), ha attraversato i trivi delle opinioni. Il testo nietzscheano è stato scomposto, complicato, dalla pubblicazione di innumerevoli frammenti, giudicati in collisione normativa con la fisionomia dei suoi insegnamenti. Privi di alcuna ragione sufficiente, questi 'trucioli', questi scarti del labor limae dell'Autore, sono stari impiegati per contestare le affermazioni 'scandalose' del filosofo — in modo che su ogni sua parola si potesse dubitare... Tale depotenziamento del rigore nietzscheano — una decostruzione della fórma, suggerita da voglia di conciergerìe intellettuale —, viene comunemente giustificato con la necessità di leggerne il testo in tutti i suoi accenti. Ma il filosofo Nietzsche avrebbe la definizione per questo: enciclopedismo. E lo psicologo pure: ressentiment.Una edizione delle sue opere con l'originale tedesco a fronte non nasce, perciò, all'insegna della pluralità, della moltiplicazione — della equivocità. Ma per ribadire, con la 'sufficienza' e autorevolezza della scrittura autentica, la lettera giusta e la lettura conforme di Nietzsche. («In summa»: leggere e comprendere Nietzsche significa diventare immediatamente antimoderni. E quando si diventa antimoderni, è impossibile non aspirare a operare contro la modernità. E di ciò si vede sempre il segno...)2. La singolarità di Nietzsche, nel paesaggio della filosofia, sta nell'avere sprezzato l'esigenza postcartesiana della puntualità, della conclusione, e nell'essere ritornato a quello stile di pensiero per cui sapere è una caccia (la «venazione della verità», in Giordano Bruno) e un rischio, un continuo 'assaporare' l'Essere. Il comunicare per enigmi, il sottintendere nel gioco delle parole, in figure verbali, il motivo e il senso delle proprie intuizioni, rese Nietzsche un maestro della pagina scritta, pur senza farne mai, naturalmente, un retore scaltrito. L'attenzione nietzscheana alla parola è niente altro che 'fisiologia dell'essere': desiderare che nessuna possibilità di significato venga negletta. Lo stile letterario del filosofo tedesco esercita la seduzione della purezza. Oltre la scrittura, si ha la sorpresa dell'assoluta assenza dell'io petulante, della mancanza di finalismi, di astuzie vanitose. Anche i testi più 'personali', come Ecce Homo, o, in genere, gli estremi, non parlano d'altro che di destino.Il «grande stile» — che Nietzsche intese quale idea del portamento in philosophicis — è 'convenienza': nel senso classico, ciò che 'si' conviene. La «venazione» nietzscheana contempla così la scienza, in quanto dominio della impersonalità, fattore indispensabile nell'equazione che da la «rettitudine intellettuale». L'occhio per la lettura del mondo ha da risultare, per il filosofo tedesco, acuto e disinteressato. Ma pure sapido, capace di gioioso libertinage. La filologia dev'essere, perciò, non virtuosismo da 'cattivi' della storia, ma archeologia del sapere, dell'essenza dei ragionamenti, e, insieme, auscultazione del presagio. E la filosofìa non l'illusione di un distacco, non il congedo cerimonioso da quel che più merita l'indugio, l'indagine. Non si scordi «ciò che è più prezioso sulla terra nera».3. L'intenzione di questa collana è di favorire la «buona lettura» - la buona esecuzione della partitura, potremmo dire - dei testi di Nietzsche: si da «indovinare» e cogliere le inflessioni della parola dell'«ultimo grande filosofo europeo». Ciò, non per assecondare una voluttà di annessione ideologica di alcune linee della sua multiforme scrittura diagnostica; ma per corrispondere a una volontà di riconnessione ideativa con gli elementi permanenti della sua uniforme visione prognostica. Ovvero, è un proposito di approssimazione alle idee apicali del «radicalismo aristocratico» (o, che è lo stesso, del «radicalismo antidemocratico») nietzscheano, come: l'anelito a una sintesi volta a decidere senza recidere (amor fati); la nostalgia della sufficienza del reale («il senso della terra»); la tornitura «curva» della Verità; il disgusto dello stordimento democratico ed egualitario, il riconoscimento della ineguaglianza e il ristabilimento della gerarchia; il significato sacrosanto della vita superiore, ossia dell'allevamento ubermensch;il privilegio qualitativo dei «pochissimi» — raccolti in una «oligarchia dello spirito» — rispetto ai «più», ai «troppi».Il nome Alter ego segnala, tra l'altro, il senso del rapporto tra revisione del passato e previsione dell'avvenire, rapporto che è lo sfondo immobile entro cui si dispone l'intera visura nietzscheana del presente. Se il duello tra io e altro porta da una dicotomia a una endiadi tra l'io e il suo doppio, allora, quando l'ego sia la modernità, l'esito del contatto con l'alter è la prepotenza nichilistica del presente; quando invece l'ego sia la contromodernità, la sorte dell'incontro-scontro con l'alter è affidata alla purificazione dell'avvenire nella crescita della vita, ritrovata al termine della modernità, cioè alla liberazione dell'avvenire dalla decadenza.4. Pur scegliendo di intitolarsi Alter ego, questa versione delle opere di Nietzsche si guarda bene dal «forsennato orgoglio» di ritenersi felice riproduzione della voce originaria. La traduzione proposta vale da strumento opportuno perché il Lettore, che abbia orecchio, lo accosti al discorso dell'Autore — anzi sia tutt'orecchi alle parole di questi, per non diventarne un orecchiante. Già sarà molto se tale trascrizione riuscirà eco baluginante dei suoni e riflessione diligente delle note nietzscheane. Il traduttore, nel caso di toni così vivi, ricchi e variegati, ci sembra non poter essere di più che un 'passatore': agevolando nell'espatrio il passo originale tedesco del principe Vogelfrei, glorioso bandito.Infine, la dicitura Alter ego è combinazione di segni fondamentali della sintassi filosofica di Nietzsche. Questa si inaugurò nel segno del due — nient'altro che l'uno moltiplicato per sé stesso: elevato a potenza. Schiuse il proprio primo sguardo sui celesti rimandi tra Dioniso e Apollo. Contemplò la tragicità dell'esistenza e convertì il risucchio dell'abisso in ebbrezza del volo (il Vortice' divenne, così, Vertice'). Osservò il numero (la moltitudine) e lo fece numerus (ritmo, danza). Vide il radicale dell'uomo e lo chiamò ubermensch, 'uomo superbo', 'uomo supremo', thèios anèr. Guardò la bellezza e ne catturò insieme le caratteristiche di amor di lontananza e di amor di superficie. Il rispecchiarsi delle coppie tende all'unità loro sottesa: parabola e parola, mythos e mito — tra essi, lo spazio, lo spessore della differenza, è appena quello, sottile e maestoso, di una pagina scritta.
Ar
Lo yoga in Aleister Crowley
di Marco Pasi
"Yoga? There's danger in the biz! But, it's the only chance there is!" (For life, if left alone is sorrow, And only fools hope God's tomorrow.)
Aleister Crowley, The Sword of Song.
Come afferma Massimo Introvigne, "Crowley si comprende difficilmente senza il suo radicamento nello yoga" [1]. Lo yoga pervade un po' tutta l'opera del mago inglese, assumendo nei suoi scritti un'importanza almeno pari a quella della magia tradizionale occidentale. Necessariamente in questa sede non sarà possibile affrontare il tema del rapporto tra Crowley e lo yoga in tutta la sua ampiezza e complessità, tema che sinora non è mai stato approfondito adeguatamente. Mi limiterò in primo luogo a ripercorrere brevemente il modo e il contesto in cui Crowley venne in contatto per la prima volta con lo yoga. Farò poi qualche riflessione e offrirò qualche interpretazione sul significato che lo yoga ebbe per Crowley.
Solitamente, quando si parla di influssi di dottrine orientali sul sistema di Aleister Crowley, il riferimento immediato e spontaneo è al tantrismo [2]. Questo, probabilmente, per un semplice motivo. L'aspetto che sicuramente ha solleticato di più la fantasia e l'interesse di coloro che si sono occupati di Crowley è senza dubbio quello della magia sessuale. Sembra dunque quasi darsi per scontato che Crowley abbia derivato le sue pratiche di magia sessuale da fonti di prima mano, durante i suoi viaggi in oriente. Per esempio John Symonds e Kenneth Grant, nell'introduzione alla loro edizione di Magick, sostengono che "Crowley era stato iniziato anche alle branche più oscure dello yoga, conosciute genericamente come tantrismo" [3]. Se definire il tantrismo "una delle branche più oscure dello yoga" non è già di per sé molto corretto, non risulta né dall'autobiografia di Crowley, né dalla biografia dello stesso Symonds che Crowley abbia ricevuto un'iniziazione del genere durante uno dei suoi viaggi in Oriente [4]. A meno che Symonds e Grant non facciano riferimento con ciò agli insegnamenti che Crowley ricevette quando entrò a far parte dell'Ordo Templi Orientis, nel 1910. In questo caso però, si dovrebbe sottolineare che la conoscenza che Crowley ricevette del tantrismo attraverso l'Ordo Templi Orientis fu comunque una conoscenza già mediata da un filtro occidentale. Con ciò intendo dire che questa conoscenza non fu né appresa direttamente sui testi originali del tantrismo né ricevuta da un maestro orientale. Non sarà certo un caso che Crowley, tra le letture consigliate per coloro che intendono intraprendere il cammino della realizzazione secondo il suo sistema, non inserisca nemmeno un testo della tradizione tantrica, mentre invece abbondano opere classiche della tradizione yoga e buddista [5].
La vera "scoperta" che Crowley fece in India fu in realtà proprio lo yoga. Lì egli studiò i testi della tradizione e cominciò a metterne in pratica gli insegnamenti. In qualche modo tutto il suo lavoro successivo venne influenzato da queste esperienze e lo spazio che egli dedicò allo yoga nelle sue opere è molto ampio [6]. Crowley aveva solo ventisei anni quando giunse per la prima volta in India. L'interesse per la spiritualità orientale aveva già da tempo cominciato a diffondersi in Occidente e da curiosità erudita si stava trasformando sempre più in esigenza esistenziale. Attraverso la Società Teosofica e grazie ad avvenimenti come quello del Parlamento Mondiale delle Religioni, tenutosi nel 1893 a Chicago in concomitanza con l'Esposizione Universale, l'Occidente veniva a conoscenza di nuovi, esotici, percorsi spirituali. Come hanno fatto notare sia James Webb che Massimo Introvigne, questa ricerca della spiritualità orientale si trovò molto spesso unita a un interesse per le tradizioni esoteriche e occulte occidentali [7]. In questo contesto si colloca la "scoperta" dello yoga da parte di Aleister Crowley.
Questa scoperta avvenne quando Crowley, nei primi di agosto del 1901, giunse a Ceylon [8]. Erano ormai diversi mesi che era in viaggio. Nella primavera del 1900 alcuni contrasti sorti all'interno della Golden Dawn tra Mathers, che ne era il capo, e altri membri prominenti, tra cui William Butler Yeats, avevano portato a una scissione nell'ordine [9]. Crowley, che ne era entrato a far parte meno di due anni prima, aveva parteggiato per Mathers, ma dopo la scissione vera e propria aveva deciso di lasciare l'Inghilterra per un lungo periodo. Il suo patrimonio, allora ancora intatto, gli consentiva di intraprendere questo viaggio, al quale ne sarebbero seguiti molti altri, senza preoccupazioni. La sua prima destinazione fu il Messico, che raggiunse nel luglio del 1900. Rimase in questo paese diversi mesi e durante il suo soggiorno fu raggiunto dal suo amico Oscar Eckenstein. Eckenstein era un alpinista piuttosto famoso e Crowley aveva già compiuto diverse scalate con lui sulle Alpi. I due fecero alcune ascensioni sulle montagne più alte del paese centroamericano. È opportuno richiamare questi particolari, perché pare che Eckenstein non sia stato solo un maestro di alpinismo per il più giovane Crowley. Nella sua autobiografia, Crowley ci dice infatti che fu lui, proprio durante il soggiorno in Messico, a insegnargli una tecnica di concentrazione, che consisteva nell'immaginare un oggetto e nel tenere questa immagine fissa il più a lungo possibile [10]. Lo scopo era na turalmente quello di ottenere un certo controllo sulla mente e sui processi del pensiero. Purtroppo Crowley non ci dice dove Eckenstein avesse appreso questa tecnica, anche se ci avverte che il suo mentore non aveva nulla a che fare con la magia e che, anzi, si prendeva gioco del suo più giovane amico per i suoi interessi occulti [11]. A partire da questo momento, Crowley mise da parte la magia cerimoniale che aveva imparato a praticare nella Golden Dawn e si dedicò a esperimenti basati su questa nuova tecnica [12]. Ciò preparò sicuramente il terreno all'incontro con le tecniche dello yoga vero e proprio.
Dopo essersi separato da Eckenstein e aver lasciato il Messico, Crowley attraversò il Pacifico, con l'intenzione di raggiungere un altro suo amico, Allan Bennett, che aveva conosciuto nella Golden Dawn. Bennett si era ritirato a Ceylon da circa un anno e aveva cominciato a studiare lo yoga e il buddismo con un maestro del luogo. Crowley stimava molto Bennett; avevano vissuto insieme a Londra per un certo periodo e avevano fatto molti esperimenti di magia cerimoniale. In seguito al suo trasferimento a Ceylon, Bennett aveva abbandonato la magia della tradizione occidentale, per dedicarsi allo studio della sapienza indiana. Come abbiamo visto, anche Crowley aveva temporaneamente messo da parte la magia, e, quando giunse a Ceylon, era pronto a lanciarsi in questa nuova avventura spirituale.
Il maestro di yoga di Bennett era Sri Parananda Ramanathan, del quale non sappiamo granché se non che era il Procuratore Generale di Ceylon e apparteneva a una setta scivaita. Al suo arrivo, Crowley si unì subito a Bennett nelle sue ricerche e nei suoi esperimenti con lo yoga. Entrambi erano, come Crowley stesso dice, "determinati a praticare i sistemi orientali sotto un cielo orientale e con metodi solamente orientali" [13]. Crowley convinse Bennett ad affittare un bungalow a Kandy, nell'interno dell'isola, e a continuare da soli le pratiche yoga. Le tecniche che Crowley apprese in quel periodo erano perlopiù tecniche dello yoga "classico", basato cioè sui principi fissati da Patañjali [14]. Quotidianamente egli si esercitava con l'âsana, cioè l'assumere con il corpo una determinata posizione sino a raggiungere l'assoluta immobilità, il prânâyâma, cioè la tecnica di controllo del respiro, il dhâranâ, ovvero la concentrazione che consente l'arresto del flusso del pensiero[15]. Ai primi di ottobre, dopo due mesi di queste continue pratiche, Crowley raggiunse, a suo dire, quello che è il penultimo gradino della realizzazione yoga, il dhyâna. Superiore al dhyâna è solo il samâdhi, che è la meta suprema per colui che pratica lo yoga e segna il raggiungimento della liberazione. L'esperienza del dhyâna fu per Crowley molto importante. Secondo Israel Regardie fu "il più importante risultato spirituale che egli avesse conseguito sino ad allora." [16] Dopo questo successo Crowley interruppe i suoi esercizi. Probabilmente questo successo l'aveva appagato a sufficienza. Verso la fine di novembre lasciò Ceylon. Doveva raggiungere il nord dell'India, dove aveva un appuntamento con Eckenstein per organizzare una spedizione sul K2.
Non risulta che negli anni successivi egli abbia mai ripreso a praticare lo yoga con la stessa assiduità che caratterizzò il "ritiro" di Ceylon, ma evidentemente le esperienze di quel periodo ebbero un profondo influsso su di lui. Successivamente, Crowley rivendicò di avere raggiunto anche il samâdhi, e di avere completato dunque il suo percorso mistico secondo i canoni dello yoga, anche se non è ben chiaro in quale momento ebbe questa esperienza.
C'è un aspetto da tenere in considerazione a proposito delle pratiche yoga di Crowley a Ceylon, che è stato evidenziato da Regardie [17]. Il dhyâna fu ritenuto da Crowley un passaggio di particolare valore nel suo percorso spirituale. Anche dopo il suo distacco dalla Golden Dawn, e la sua perdita di fiducia nei confronti di Mathers, Crowley aveva continuato a scandire la sua evoluzione magica e spirituale secondo lo schema di gradi dell'Ordine. Ciò significa che, non potendo più ottenere i gradi della Golden Dawn attraverso l'iniziazione formale, egli cominciò ad autoattribuirsi questi gradi in successione. Così, se il lavoro magico svolto in Messico gli consentì di attribuirsi il grado di Adeptus Major, grazie al dhyâna di Ceylon, poté ascendere al grado di Adeptus Exemptus. Dunque possiamo notare che Crowley vedeva una certa continuità tra le sue pratiche magiche e l'esperienza dello yoga. Si può dire che per lui il percorso era sempre unico, anche se diverse e multiformi potevano essere le esperienze che consentivano di procedere.
Quali furono gli aspetti dello yoga che attrassero tanto Crowley? C'è un elemento caratteristico dello yoga che è stato evidenziato da Eliade, che ci interessa particolarmente: è quello della "sperimentalità" [18]. Lo yoga non ci presenta una metafisica dogmatica e complicata, ci offre semmai un percorso d'azione. Ci dice cosa fare per ottenere certi risultati. Se i risultati si ottengono oppure no, ognuno lo può sperimentare attraverso la pratica. Questa spiccata tendenza al concreto non poteva non essere congeniale a Crowley.
Qui è opportuno aprire una parentesi. C'è un aspetto della mentalità di Crowley, che è stato piuttosto trascurato e che invece a me sembra centrale. Faccio riferimento alla sua forte componente di razionalismo. Forse il fatto che egli si sia occupato di magia e di misticismo per tutta la vita porta a ritenere che la sua forma mentale era prevalentemente basata su criteri irrazionali. Niente di più lontano dalla verità. Si può dire invece che Crowley aveva una componente razionalista così spiccata, da accordarsi con le tendenze più prettamente positivistiche della sua epoca. Nei suoi scritti Crowley cita a ogni piè sospinto autori come James Frazer, Herbert Spencer, Thomas Henry Huxley; studiosi e pensatori che della razionalità e del positivismo avevano fatto una causa da difendere e da diffondere. Che si trattasse di magia o di yoga, l'idea di Crowley era di procedere sempre con un rigoroso metodo sperimentale.
Durante il suo apprendistato nella Golden Dawn, Crowley aveva imparato a tenere un diario nel quale annotare i suoi esperimenti magici. Ora metteva a frutto questa pratica trasformando i suoi diari in veri e propri registri di laboratorio. Durante i mesi trascorsi a Ceylon egli annotò con cura tutti i suoi esercizi, registrando tra l'altro la sua condizione fisica e mentale del momento e il risultato ottenuto. Allo stesso modo si comporterà diversi anni dopo quando "scoprirà" il metodo della magia sessuale e comincerà a fare esperimenti con essa [19]. Con questo spirito da ricercatore scientifico Crowley si accostò allo yoga. E lo yoga, proprio per la sua caratteristica di "sperimentalità", cui abbiamo accennato prima, si prestava particolarmente bene a un approccio di questo tipo.
C'è poi un altro aspetto interessante. Una cosa in particolare sembra essere stata molto a cuore a Crowley: l'origine del "genio". All'inizio della prima parte del Book Four, dedicata appunto allo yoga, Crowley tratta l'argomento [20]. In qualche modo questo ci aiuta a capire il significato delle pratiche yoga per Crowley, e d'altra parte conferma indirettamente ciò che abbiamo detto detto a proposito del suo razionalismo. Crowley dunque, nel testo citato, vuole affrontare razionalmente il problema della religione. Tutte le vecchie religioni, secondo lui, sono ormai al collasso. Ciò che si può fare è reimpostare la questione dal principio. Le religioni sono molte e molto diverse tra loro, ma forse è possibile trovare un elemento condiviso da tutte. Ebbene, questo elemento egli lo individua proprio nel "genio religioso", cioè in quel particolare carisma posseduto da coloro che fondano nuove religioni. Tutti i fondatori di religioni, ci dice Crowley, presentano un tratto in comune: a un certo punto della loro vita essi scompaiono, o si ritirano, per un periodo più o meno lungo e, quando ricompaiono, sono in possesso del carisma necessario per fondare una nuova religione. Durante quel periodo di ritiro, evidentemente, deve accadere qualcosa di particolare. Ebbene, secondo Crowley quello che è accaduto a Mosè, a Gesù, a Maometto, al Buddha e a tutti gli altri fondatori di religioni è del tutto analogo a quell'esperienza mistica che nello yoga viene definita con il termine samâdhi. Secondo lo yoga di Patañjali il samâdhi è l'ultimo stadio della realizzazione, quello nel quale si raggiunge la liberazione. Per Crowley, se i vari fondatori di religioni hanno descritto quest'esperienza in modo diverso, è perché diverse erano le culture e le tradizioni nelle quali essi si erano formati. Questo ha fatto sì che essi interpretassero quello che sostanzialmente era lo stesso fenomeno in modi diversi. Così, per esempio, Maometto ha conversato con l'arcangelo Gabriele, il Buddha è giunto all'Illuminazione, Mosè ha incontrato Dio sul Monte Sinai.
Questo è un punto estremamente importante, sul quale è necessario fare una riflessione. Crowley traccia un'equazione tra le esperienze mistiche o di contatto con la divinità che alcuni "fondatori di religioni" hanno sperimentato, con l'esperienza del samâdhi. Questo perché entrambi i tipi di esperienze consentono al "genio" che è latente nell'uomo di affiorare. E allora ecco l'intuizione di Crowley: se queste esperienze sono in sostanza una sola cosa, allora con lo yoga si ha a disposizione una tecnica che consente di giungere a essa. Lo yoga, dunque, diventa un metodo per ottenere "genio" a volontà. Un metodo, per giunta, del tutto sperimentale. C'è tuttavia un aspetto che rimane sottinteso nel suo discorso. Crowley riteneva che in lui fosse affiorato né più né meno lo stesso "genio religioso" che egli individuava nei fondatori di religioni citati prima. Anche Crowley riteneva di avere un messaggio da diffondere al mondo, un messaggio che fosse adatto per la nuova era. Egli fondò la sua religione, la cosiddetta religione di Thelema, basata su una "rivelazione" contenuta in un "testo sacro", il Libro della Legge [21]. Naturalmente Crowley non intendeva dire che chiunque pratichi lo yoga sino a raggiungere il samâdhi sia in grado di fondare una religione, ma quantomeno il sottinteso è che a lui è accaduto proprio questo.
Una citazione tratta dal Book Four servirà a illustrare meglio questo aspetto:
...affermiamo l'esistenza d'una fonte segreta di energia che spiega il fenomeno del Genio. Noi non crediamo ad alcuna spiegazione sovrannaturale, ma sosteniamo che tale fonte può essere raggiunta seguendo regole precise; il grado del successo dipende dalle capacità del ricercatore, non già dal favore di un Essere Divino. Noi affermiamo che il fenomeno critico che determina il successo è un atto che si compie nel cervello ed è caratterizzato essenzialmente dall'unione di soggetto e oggetto. [22]
Da queste parole risalta in modo assai chiaro l'aspetto razionalista, direi quasi positivista di Crowley. A Crowley non sembrano interessare molto i principi filosofici su cui si basa lo yoga, come il dualismo tra purusa e prakrti, che corrisponde grossolanamente a quello occidentale tra spirito e materia, o la presenza di Içvara, cioè di un'entità suprema. Questi sono elementi che potremmo definire "sovrastrutturali", che dipendono dal contesto ambientale in cui lo yoga come dottrina è stato formulato. Essi dipendono quindi dal livello di comprensione di coloro cui le dottrine yoga erano originariamente dirette. Ciò che solo conta è il nucleo di queste dottrine: eliminando l'involucro e mantenendo il nucleo si ha una tecnica valida per chiunque. Notiamo qui un aspetto molto evidente del pensiero di Crowley, che lo identifica senza dubbio come un figlio del suo tempo. È quello che potremmo definire "pregiudizio positivista". In effetti egli riteneva di capire e saper interpretare le dottrine tradizionali dello yoga meglio di quanto facessero gli indiani stessi [23]. Si tratta qui, più o meno, di quello stesso tipo di pregiudizio che René Guénon, in una sua nota opera sulle dottrine tradizionali indù, definiva come "un'incredibile aberrazione". [24]
Non ci sono misteri, né implicazioni metafisiche, nella visione che Crowley ha dello yoga. Si ha a che fare, si direbbe, quasi esclusivamente con la cruda fisiologia. E questa visione "fisiologica" dell'esperienza spirituale o religiosa conduce Crowley a un'intuizione che mi sembra di straordinario interesse. In un passo della sua autobiografia egli scrive:
... il samâdhi, qualunque cosa sia, è perlomeno uno stato mentale esattamente come la concentrazione, la rabbia, il sonno, l'ebbrezza e la malinconia. Molto bene. Ogni stato mentale è accompagnato da stati fisiologici corrispondenti. Si osservano lesioni della materia cerebrale, disturbi dell'irrorazione sanguigna, e così via, in una relazione apparentemente necessaria con questi stati spirituali. Inoltre, sappiamo già che certe condizioni spirituali o mentali possono essere indotte agendo sulle condizioni fisico- e chimico-fisiologiche. (...) Perché dunque non dovrebbe essere possibile escogitare un qualche metodo farmaceutico, elettrico o chirurgico per indurre il samâdhi e creare il genio semplicemente come creiamo altri tipi di particolare eccitazione? La morfina rende l'uomo santo e felice, ma in un modo negativo; perché non dovrebbe esserci una qualche droga che sia in grado di produrre l'equivalente in positivo? Il mistico rimarrà senza fiato per l'orrore, ma non è necessario prestargli attenzione. È lui che insulta la natura postulando una discontinuità nei suoi processi. Se ammettiamo che il samâdhi è uno stato sui generis va a finire che ci ritroviamo di nuovo di fronte tutte le fandonie del soprannaturale che già avevamo messo da parte. [25]
Questo passo mostra a quale estrema conseguenza era giunto l'atteggiamento "razionale" di Crowley nei confronti dello yoga. Secondo Crowley, se neghiamo qualsiasi carattere di soprannaturalità al samâdhi, rimane di esso il solo aspetto fisio-psicologico. Stando così le cose questo stato potrebbe essere indotto, almeno teoricamente, con un qualche mezzo artificiale, nella fattispecie qualche sostanza psicoattiva.
È noto che Crowley fece uso di droghe sin dalla giovinezza. Ebbene, nel passo citato troviamo una spiegazione estremamente lucida di questo uso. All'origine troviamo il desiderio della sperimentazione, la ricerca di nuove vie, anzi di scorciatoie, per la realizzazione spirituale. A che scopo perdere tempo in esercizi complicati ed estenuanti, se è possibile avere tutto subito? Questo aspetto è tanto più interessante se consideriamo che esso, in un certo senso, collega Crowley alla cultura psichedelica degli anni sessanta; anni che non a caso videro una riscoperta delle sue idee e della sua figura [26]. Questo collegamento, del resto non è senza passaggi intermedi, visto che alcune fonti, per esempio, sostengono che fu Crowley a introdurre Aldous Huxley alla mescalina negli anni trenta [27]. È nota l'influenza che ciò che Huxley scrisse a proposito delle sue esperienze con le droghe ebbe sulla successiva cultura psichedelica. Del resto l'idea di "abbreviare" il percorso dello yoga con sostanze stupefacenti non era certo originale. Nella stessa tradizione indiana sono conosciute forme "popolari" di yoga, influenzate probabilmente da elementi di origine sciamanica, che contemplano l'uso di sostanze come la canapa o l'oppio per ottenere transe estatiche [28]. L'uso di queste sostanze è però scarsamente attestato dalla tradizione dello yoga classico. [29]
Vorrei ora toccare un altro possibile aspetto del significato dello yoga per Aleister Crowley. La mia impressione è che egli adoperò le varie forme di meditazione e di concentrazione necessarie per la pratica yoga anche per esercitare e sviluppare una facoltà che è assolutamente centrale per la tradizione esoterica e magica occidentale: l'immaginazione. Secondo Ioan Culianu, la magia è una "scienza dell'immaginario" e Antoine Faivre ha posto proprio l'immaginazione tra gli elementi fondamentali dell'esoterismo occidentale moderno. [30]
C'è in effetti un filo rosso che collega la mnemotecnica rinascimentale alla tecnica dei cosiddetti "viaggi astrali", che veniva insegnata ai membri della Golden Dawn [31]. Questo filo rosso è proprio l'immaginazione. Attraverso l'immaginazione il mago ha a disposizione una dimensione parallela a quella della realtà oggettiva, una dimensione nella quale egli si muove e ha delle sensazioni, nella quale si compiono delle esperienze significative, spesso di tipo simbolico. Ma, evidentemente, l'immaginazione è una facoltà che va allenata. Con gli esercizi iniziati sotto la guida di Oscar Eckenstein e con quelli eseguiti insieme ad Allan Bennett a Ceylon, Crowley esercitava anche le sue capacità di concentrazione e di immaginazione. Voglio dare qui due piccoli esempi di ciò che intendo dire. Nel 1906, dopo un tentativo fallito di scalare una delle montagne più alte dell'Himalaya, il Kangchenjunga, Crowley intraprese un viaggio in Cina, che durò diversi mesi. Durante questo viaggio egli praticò un rituale che riveste una grande importanza nella sua "carriera magica": l'Augoeides. Qual era la particolarità di questo rituale magico, che nel suo complesso si protrasse addirittura per trentadue settimane? La particolarità era il fatto che l'Augoeides venne praticato esclusivamente sul piano dell'immaginazione [32]. Per motivi che qui non approfondiremo, Crowley aveva la necessità di iniziare a praticare questo rituale proprio nel momento in cui si trovava in Cina. Nelle condizioni in cui era, non poteva disporre né di un tempio magico, né della solitudine necessaria per questo tipo di pratiche. Dunque decise di fare a meno di qualsiasi elemento esterno e materiale. Attraverso l'immaginazione, Crowley visualizzava il tempio magico, con tutti gli arredi e il resto, e poi proiettava un'immagine di se stesso all'interno di questo ambiente. Così svolgeva le azioni necessarie per il rituale su un piano totalmente immaginativo, isolato da tutto quanto gli accadeva intorno. Crowley ci dice che era in grado di svolgere queste operazioni, che erano quotidiane, anche mentre stava camminando o era a cavallo.
L'altro esempio, che non ha niente a che vedere con la pratica magica, riguarda la particolare abilità di Crowley nel gioco degli scacchi. Israel Regardie, un discepolo di Crowley, ci dice che egli era in grado di giocare, e di vincere, contro due avversari contemporaneamente, senza mai vedere la scacchiera [33]. In questo caso Crowley visualizzava una scacchiera immaginaria, anzi due, sulle quali muoveva pezzi immaginari. Naturalmente le mosse venivano comunicate tramite le coordinate, lettera più numero, della scacchiera. Chi conosce anche superficialmente il mondo degli scacchi sa che la capacità di giocare "alla cieca" non è affatto straordinaria per un maestro [34]. C'è addirittura chi è stato in grado di giocare quarantacinque partite "alla cieca" contemporaneamente [35]. Ciò che a noi interessa, piuttosto, è il fatto che questa capacità visualizzativa di Crowley va collegata probabilmente con le sue pratiche yoga e sicuramente con le sue pratiche magiche. Sia Regardie, sia lo stesso Crowley mettono in relazione l'abilità nel giocare a scacchi di quest'ultimo con la pratica magica, e in particolare proprio con l'Augoeides. [36]
Indubbiamente la scoperta dello yoga da parte di Aleister Crowley si inquadra in quella spinta a Oriente che il "sostrato illuminato", per usare l'espressione di James Webb, mise in atto a partire dalla seconda metà del secolo scorso. Però abbiamo avuto modo di constatare come l'esito di questa scoperta fu tutt'altro che scontato. Nell’escludere interpretazioni soprannaturali, Crowley mostra tutta la sua dipendenza dagli schemi di pensiero più diffusi della sua epoca. Ci troviamo così di fronte a un mistico di nuovo tipo, che cerca di integrare i dati della tradizione con la scienza e il progresso. Del resto, il suo razionalismo non gli impedì di inserirsi appunto nella più schietta tradizione magica occidentale, dal momento che cercò di mettere a pieno frutto quella facoltà fondamentale per il mago: l'immaginazione.
Massimo Introvigne, Il cappello del mago - I nuovi movimenti magici, dallo spiritismo al satanismo, SugarCo, Milano 1990, p. 313.
Riferimenti a eventuali influssi del tantrismo su Crowley si trovano un po' ovunque, ma soprattutto in Francis King, Il cammino del serpente - Storia, Riti e Misteri della Magia Sessuale, Edizioni Mediterranee, Roma 1979, passim. Si può vedere anche quello che dice in proposito Julius Evola in Metafisica del Sesso, Edizioni Mediterranee, Roma 1988, p. 384 e ss. Da notare che Evola attribuisce erroneamente a Crowley l'incontro con "due esponenti indù della Via tantrica della Mano Sinistra, Brima sen Pratab e Sri Agamya Paramhamsa [sic]", citando come fonte la biografia di Crowley scritta da John Symonds. Si tratta certamente di una svista, perché in realtà Symonds nella sua opera afferma che a incontrare i due guru indiani fu Carl Kellner, i cui contatti con Theodor Reuss possono essere considerati all'origine dell'Ordo Templi Orientis, l'ordine massonico di frangia cui in seguito appartenne anche Crowley. Kellner, che morì probabilmente prima che l'OTO venisse effettivamente creato da Reuss, non ebbe comunque mai alcun rapporto con Crowley (cfr. John Symonds, The Beast 666 - The Life of Aleister Crowley, Pindar Press, London 1997, p. 160).
Aleister Crowley, Magick, Astrolabio, Roma 1976, p. 6.
L'autobiografia è The Confessions of Aleister Crowley - An Autohagiography, Arkana, London 1989. L'ultima edizione della biografia di John Symonds è quella indicata nella nota 2.
La cosa viene rilevata, del resto, anche da Symonds e Grant: "È singolare il fatto che Crowley, il quale poneva in grande risalto gli insegnamenti sessuali del Tantrismo (Vamacharin) abbia omesso di ricordare, persino nel suo elenco di autori, il nome di Sir John Woodroffe (Arthur Avalon), i cui testi tantristi furono pubblicati intorno al 1920." (Aleister Crowley, Magick, cit., p. 6).
Due sono le opere principali di Crowley sullo yoga: la prima parte del Book Four, che fu pubblicata nel 1912 (ora si trova in Aleister Crowley, Magick, cit.) e le Eight Lessons on Yoga, pubblicate per la prima volta nel 1939 (un'edizione recente è quella della New Falcon Publications, Scottsdale 1991).
Su questo punto e più in generale sulla diffusione in Occidente dell'interesse per la spiritualità orientale, cfr. James Webb, The Flight from Reason - The Age of the Irrational, Macdonald, London 1971, i capp. II ("Babel") e III ("The Masters and the Messiah"); e Massimo Introvigne, Le nuove religioni, SugarCo, Milano 1989, p. 267 e ss. torna
Sul periodo che Crowley trascorse a Ceylon, cfr. Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., pp. 232-254; John Symonds, op. cit., pp. 43-45; Israel Regardie, The Eye in the Triangle - An Interpretation of Aleister Crowley, New Falcon Publications, Phoenix 1993, pp. 229-265.
Su queste vicende e più in generale sulla storia della Golden Dawn il testo canonico è quello di Ellic Howe: The Magicians of the Golden Dawn - A Documentary History of a Magical Order 1887-1923, The Aquarian Press, Wellingborough 1985. Sui contrasti del 1900 e le varie scissioni vedi in particolare i capp. 14 ("Rebellion in London") e 15 ("The Battle of Blythe Road").
Cfr. Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., pp. 213-214.
Cfr. ibid., pp. 159 e 213. Bisogna tenere in considerazione il fatto che Eckenstein era stato in India, in quanto aveva fatto parte della spedizione di Conway che nel 1892 aveva tentato la scalata al K2 (cfr. John Symonds, op. cit., p. 46). Potrebbe forse in questa occasione avere appreso qualche tecnica yoga.
Un resoconto di questi esperimenti si trova in The Equinox I, 4, "The Temple of Solomon the King", pp. 107-124. Eckenstein viene indicato con le iniziali "D.A.".
Ibid., p. 123.
Per il concetto di Yoga "classico" distinto dalle sue varianti "popolari" e "barocche" cfr. Mircea Eliade, Lo Yoga - Immortalità e libertà, Sansoni, Firenze 1990, p. 20.
Su questi elementi della pratica yoga, cfr. ibid., p. 62 e ss.
Israel Regardie, op. cit., p. 249.
Cfr. ibid., p. 253.
Cfr. Mircea Eliade, op. cit., p. 51.
A questo proposito vedi l'interessante introduzione di Stephen Skinner a: Aleister Crowley, The Magical Diaries of Aleister Crowley - 1923, Neville Spearman, Jersey 1979. Skinner è uno dei pochi che abbia colto, e messo in evidenza, questo aspetto della razionalità e della pretesa di scientificità in Crowley.
Cfr. Aleister Crowley, Magick, cit., p. 19 e ss. Dobbiamo qui notare che Crowley ha preferito intitolare questa parte del Book Four non "Yoga", come sarebbe stato ovvio, ma "Misticismo". La seconda parte è invece intitolata "Magia". Troviamo dunque in Crowley questa distinzione, e questa polarità, tra misticismo e magia. Sostanzialmente, per Crowley, il misticismo cerca il contatto diretto con il "divino", con l'"assoluto", che naturalmente non è mai visto in modo dogmatico. La magia, invece, è la ricerca del potere attraverso delle tecniche che operano su un piano sottile. Si potrebbe dire che con la magia si adoperano mezzi spirituali per ottenere fini materiali. Comunque la distinzione non è sempre netta, spesso misticismo e magia in Crowley si confondono.
Su questo aspetto vedi ciò che con grande equilibrio scrive Israel Regardie, che fu un discepolo di Crowley, in op. cit., p. 461 e ss. Per il Libro della Legge nel contesto delle nuove rivelazioni, magiche e religiose, cfr. Massimo Introvigne, "Livres magiques révélés et livres révélés religieux (d'Aleister Crowley aux nouvelles religions)" in Aries n° 15, Meudon, pp. 95-116.
Aleister Crowley, Magick, cit., p. 29.
Cfr. Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., p. 240. Scrive Crowley: "The numerous practices of Yoga are simply dodges to help one to acquire the knack of slowing down the current of thought and ultimately stopping it altogether. This fact has not been realized by the yogis themselves. Religious doctrines or ethical considerations have obscured the truth. I believe I am entitled to the credit of being the first man to understand the true bearings of the question."
Cfr. René Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi, Milano 1989, pp. 12-13. Scrive Guénon: "...l'esclusivismo degli orientalisti (...) e il loro schematismo sono invece tali da spingerli, per un'incredibile aberrazione, a ritenersi capaci di comprendere le dottrine orientali meglio degli orientali stessi..."
Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., p. 386. Trad. mia.
L'idea di questo accostamento è di James Webb. Cfr. Il sistema occulto, SugarCo, Milano 1989, p. 303. Cfr. anche Massimo Introvigne, Indagine sul satanismo - Satanisti e anti-satanisti dal seicento ai nostri giorni, Mondadori, Milano 1994, p. 265 e ss., per la riscoperta negli anni sessanta e la lettura in chiave satanista di Crowley da parte di certi ambienti legati alla cultura hippy e psichedelica californiana.
Cfr. James Webb, Il sistema occulto, cit., p. 303 e Francis King, op. cit., p. 169, n. 7.
Cfr. Mircea Eliade, op. cit., p. 314.
Cfr. Patañjali, Yoga sûtra - con i commenti della tradizione, Mimesis, Milano 1992, p. 115.
Per quanto riguarda Culianu vedi il suo bel saggio: Ioan P. Couliano, Eros e magia nel Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1987. Per la definizione di magia come "scienza dell'immaginario" vedi p. 7. Nella stessa pagina lo studioso rumeno scrive anche: "In quanto scienza della manipolazione dei fantasmi, la magia si rivolge in primo luogo all'umana immaginazione, nella quale tenta di suscitare impressioni persistenti." Per quanto riguarda Faivre, invece, cfr. il suo L'esoterismo, SugarCo, C. 29-31. Scrive Faivre a p. 30: "Sarebbe istruttivo fare la storia dell'immaginazione in Occidente, cioè del suo statuto. Si metterebbe in luce così l'importanza del tipo di immaginazione di cui ci occupiamo."
Su questo aspetto degli insegnamenti della Golden Dawn cfr. S. L. Macgregor Mathers, Proiezione astrale, magia e alchimia, Mediterranee, Roma 1980, in particolare la prima e la seconda parte.
Cfr. Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., p. 517 e ss.
Cfr. Israel Regardie, op. cit., p. 15.
Cfr. Reuben Fine, La psicologia del giocatore di scacchi, Adelphi, Milano 1976, p. 40 e ss.
Cfr. ibid., p. 41.
Cfr. Israel Regardie, op. cit., pp. 311-312 e Aleister Crowley, The Confessions of..., cit., p. 518. Anche Regardie fa un accostamento tra le pratiche yoga di Crowley, la sua abilità nel giocare a scacchi e il rituale dell'Augoeides. Scrive infatti a p. 313: "While riding on his pony every day [durante il suo viaggio in Cina], he would construct in his imagination a Temple. Because of the keenness of his imaginative faculty, plus the hard-earned ability to concentrate that his Yoga practice given him, we may be assured that it was a clear picture in every detail. This ability to play blindfold chess, as I have described it above, would more or less confirm my proposition that he had skill to do so."
Alessandro Pavolini, il poeta armato.
Ricorrenza e orientamento
Ben oltre la nostalgia
La normalizzazione e la storicizzazione del fascismo aprono il fianco a possibili mistificazioni.
Alcune parodie pseudofasciste rischiano di sterilizzarne il seme fecondatore.
Come nella sua essenzialità esemplare e nella sua vocazione sociale e combattente il fascismo ha proposto ed imposto un modello autenticamente rivoluzionario ed autocentrato.
Gli archetipi mussoliniani : Muti, Marinetti, Pavolini.
Attualità dei programmi e degli atti pavoliniani fronte alla globalizzazione
di Gabriele Adinolfi
Il 23 marzo è una data di tutto rilievo. In quella domenica del 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano, rispondendo all’appello di Benito Mussolini, poco meno di centocinquanta uomini decisi - arditi, socialisti irredentisti, sindacalisti rivoluzionari, nazionalisti e reduci dal fronte - fondarono i Fasci di combattimento.
Da allora la storia d’Italia e d’Europa non fu più la stessa.
Abbiamo deciso di non ignorare la ricorrenza così come già rispettammo l’anniversario della Marcia su Roma. Non certo per nostalgia ; ché nostalgici, almeno noi, non possiamo essere definiti ; né per carenze di argomenti o di orizzonti politici che, magari da monocoli fra tanti ciechi, reputiamo di poter vantare. Ci ha indotti a questa scelta una serie di valutazioni, alle quali ovviamente potete aggiungere le sacrosante ragioni del cuore.
Tre motivi per guardare a Piazza S.Sepolcro
1) Reputiamo che il fascismo abbia rappresentato la risposta spiccatamente moderna alla crisi esistenziale, sociale e morale che attanaglia i paesi sviluppati.
Non a caso, d’altra parte, esso rappresenta l’ultima e più recente forma politica e ideologica che sia stata espressa. Tanto che, avendola esorcizzata, esiliata e rifiutata, le classi dirigenti negli ultimi sessant’anni hanno dovuto e tuttora debbono annaspare senza posa, ricorrendo a teoremi e postulati ideologici e programmatici che sono molto più vecchi del fascismo e che continuano a rivelarsi fallimentari oggi come lo furono allora. Né può attribuirsi al caso il fatto che i poteri forti, certo snaturandone, distorcendone e mistificandone il significato, cerchino di mutuare gli insegnamenti decisionistici e la mentalità pragmatica ed organizzativa del fenomeno mussoliniano.
In altre parole se non è inesatto ritenere il fascismo un fenomeno storico compiuto e, dunque, irripetibile, è altrettanto lecito se non doveroso andare ad abbeverarsi a questa fonte, andare ad orizzontarsi con questa bussola, visto che tanto alle sue origini quanto al suo tramonto tragico ed epico, questo eccezionale, dinamico, movimento di azione e pensiero già aveva posto e parzialmente risolto le problematiche a venire.
2) È in atto un’opera di storicizzazione del fascismo che comporta quella che Maurizio Murelli ha definito una bonapartizzazione di Mussolini. Questo determina due conseguenze uguali e contrarie : la prima è una vera e propria normalizzazione dei riferimenti fascisti fino a qualche tempo fa reietti e, dunque, il reintegro dei neo o post o pseudo fascisti tra le schiere dei comuni mortali con la perdita dell’annosa e paralizzante bolla di eretici destinati al rogo. La seconda è che, qualora questa normalizzazione avvenisse senza interferenze da parte dei diretti interessati, di quelli veri intendiamo, la stroricizzazione si tramuterebbe in mummificazione e, quindi, in neutralizzazione delle straordinarie potenzialità attuali e future insite nella tradizione mussoliniana e pavoliniana.
3) Se si consente di traghettare il fascismo nella galleria della normalità, ma privato del suo spirito e con anima stereotipata, si lascia che nel millennio appena iniziato entri un cadavere e non un seme fecondatore.
Se non si rivendicano la memoria, l’essenza e la dinamica del fascismo, va a finire che a celebrarlo saranno le sue scimmie, i suoi rinnegatori : quelli che lo banalizzano , quelli che lo asserviscono e quelli che ne fanno in un modo o nell’altro una parodia.
Smascherare e rifiutare le parodie
E proprio nella parodia risiede il pericolo maggiore, quel che può inficiare l’azione rigeneratrice del fascismo o, comunque, di ciò che da esso deriva.
Dal 1919 al 1945 – ma noi possiamo affermare che ciò è avvenuto anche dopo – il più grande avversario del fascismo, della sua essenzialità esemplare, della sua rivoluzione continua come la definì Pavolini, è sempre stato chi, pseudo, para o sedicente filo fascista, ha operato in controsenso per banalizzarlo, normalizzarlo, cloroformizzarlo, irrigidirlo in una rappresentazione estetica o morale di se stesso.
Ed oggi che, sospinto dalle memorie vive e dal sentimento popolare, esso al contempo si storicizza e si ripropone come modello, ecco che riaffiorano i suoi principali nemici.
Quelli che lo vorrebbero dissolvere e quelli che vorrebbero pietrificarlo.
La dissoluzione che taluni desideravano operare dileguandosi in un sovversivismo subalterno alle sinistre, dopo aver partorito negli anni ottanta non la rivoluzione ma bislacchi buonismi dai toni laburisti, sembra essersi neutralizzata da sola ; forse perché dettata da un eccesso della funzione solvente non ha fatto altro che dissolversi .
Ma altre maledizioni, coagulanti fino alla paralisi, vanno di moda.
Una, contro cui si dovettero battere gli stessi fascisti durante il Ventennio e financo in Repubblica è quella dell’estetismo e del formalismo ; in altre parole della destra borghese un po’ parvenue alla continua ricerca di un riconoscimento salottiero, specie di stampo inglese. Si tratta di una corrente mistificatrice, che amerebbe poter ridurre il fascismo ad un semplice momento storico di difesa dell’ordine sì da prendersene i meriti senza pagarne il conto ; essa non solo è presente in forze nei partiti postfascisti ma serpeggia anche negli ambienti reducistici.
A questa si aggiunge una seconda tentazione mummificatrice, caratterizzata in particolare dal fondamentalismo religioso e dal clericalismo. Si tratta di culture e di funzioni non solo estranee al fascismo ma storicamente ad esso avverso e da esso avversato.
L’abbraccio mortifero tentato e qua e là riuscito da questi rigurgiti del guelfismo è stato dettato loro da alcune fredde considerazioni. Questi equilibristi alla continua ricerca di psiche da vampirizzare hanno individuato nell’estrema destra postfascista una consistenza sentimentale, una scarsa coscienza storica, politica e filosofica ed un notevole potenziale di crescita numerica e, da paguri bernardi quali sono, si sono avvinghiati sul capo di chi desidera battersi ed hanno così iniziato ad insinuare il dubbio proponendo false certezze. Le quali suonano così : fascismo come restaurazione, come difesa di ciò che decade, come moralismo, come scudo crociato. Cioè fascismo come antifascismo ; fascismo come difesa dell’occidente ; fascismo come abdicazione imperiale e ghibellina ; fascismo come bracciantato delle organizzazioni clericali ; fascismo come sfogo delle frustrazioni dei borghesi piccoli piccoli ; fascismo come guardia bianca che sbarra la strada a chi prega l’Islam, al Cristianesimo ortodosso, alle coppie non sposate, ai divorziati e a chi più ne ha più ne metta. Ossia fascismo senza futuro, fascismo in un vicolo cieco, fascismo stravolto e umiliato, fascismo sterile e immobile, fascismo rivolto contro se stesso.
Ma noi che non amiamo il Ku Klux Klan o le Guardie Svizzere, preferiamo conoscere il fascismo laddove e come esso è nato e si è affermato : imparandolo dagli Squadristi e dalle Brigate Nere.
È dall’origine che ci si orienta
La ricorrenza odierna è quella dell’origine, dell’alba, della prima scintilla. E poiché è dall’origine che ci si orienta, si è deciso che questo numero della rivista, a differenza di quello di ottobre quando tracciamo un bilancio della sua esperienza storica, ponga l’accento su alcuni dati caratterizzanti del fascismo, come sensibilità, come volontà e come mentalità. Questi aspetti sono : la tipologia eroica, una vocazione sociale particolarmente radicale, il legame con la terra e con gli avi, l’entusiasmo nell’avvenire, la spregiudicatezza ed il disprezzo per ogni formalismo.
Non a torto è stato sostenuto che il fascismo sia stato innanzitutto spirito ed epopea dello squadrismo ; ma lo squadrismo a sua volta è una miscela che si compone così : spirito di ardito, anima di futurista e sensibilità socialrivoluzionaria.
Sicché se Mussolini è indiscutibilmente il fondatore, il sovrano e il legista di questo Mito proiettato nel futuro, non si può negare che i suoi modelli archetipali, insieme ad Ettore Muti, siano Filippo Tommaso Marinetti e Alessandro Pavolini.
Pertanto, saltando da Piazza San Sepolcro a Dongo, da Fiume a Salò, abbiamo prediletto l’alfa e l’omega, ossia i momenti topici, decisivi, tragici, ma soprattutto essenziali nei quali si attesta una continuità di ethos, di pathos e di visuale a dir poco sorprendente.
Ci sembrava doveroso cogliere questa continuità e sottolinearla. Una continuità che è, innanzitutto, epica, sacrificale, combattente, e che potrebbe essere condensata e risolta, come si diceva un tempo, in un’affermazione esistenziale.
Ma non è propriamente così. O meglio : è così se per esistenziale s’intende non soltanto l’affermazione spirituale e guerriera del giovane leone ma anche un modus vivendi sociale, generoso, frugale, genuino, etico, equo e produttivo.
E si badi bene che non si trattava di far vivere fianco a fianco ma separatamente queste due istanze esistenziali, l’una tragica e l’altra comunitaria, bensì di farle convivere in fusione, indissolubilmente nell’uomo e nella donna dell’Italia fascista.
Esempio essenziale, terrore dei benpensanti
L’aspetto rivoluzionario, deflagrante, sconvolgente, vincente e, per tutti gli altri, terrificante del fascismo squadrista e repubblicano è l’assoluta semplicità con la quale propone e pratica l’essenzialità.
Un’essenzialità fondata sulla profonda e forse irragiungibile filosofia del me ne frego, un’essenzialità che sorride di tutte le umane debolezze perché fa sacrificio della vita, delle condizioni sociali, dei fronzoli e dei pennacchi non in quanto il momento lo impone, cosa questa che è sempre avvenuta nella storia, ma lo fa come condizione normale, come scelta.
È il no irriverente alle costruzioni mentali ed alle alchimie psicotiche di tutti i puritani, di tutti i moralisti, di tutti i borghesi e di tutti i disertori degli oneri e delle prove estreme.
È virilità, e per certi versi femminilità, che si oppone ad un maschilismo eunucoide ed asessuato, ad un mammismo immarcescente, ovvero ad una prolungata ed inveterata tradizione di viltà, di servilismo, di rese e di diserzioni che si giustificano con mistificazioni magnificamente costruite.
Il fascismo, perlomeno quello squadrista e repubblicano, rappresenta dunque la cattiva coscienza di tutti i pupazzi impiumati, perché è quell’esempio costante e tangibile che comprova la falsità delle costruzioni retoriche di un mondo che s’imbelletta per celare la sua nudità avvilente.
Il fascismo di Pavolini, che leva gradi e fronzoli dalle camicie nere, che impone le gerarchie funzionali, che propugna la rivoluzione continua, che va cosciente alla perdizione, che si reca volontario in prima linea e che comanda di fatto il suo plotone d’esecuzione, è esattamente, magnificamente, forse irragiungibilmente, quest’esempio essenziale, questa scossa sismica che spaventa i benpensanti stretti nel calore artificiale delle loro famiglie in rovina che, illusi di vivere in eterno, esiliano mentalmente la morte e di fatto non vivono neanche un minuto. Falene…
Pavolini anticipa la lotta alla globalizzazione
Il fascismo dunque come ricerca continua di essenzialità, di essenzialità esemplare.
Potremmo ribattere che quest’essenzialità si può ritrovare anche al di fuori del fascismo. Non scomodiamo uomini di ecclesia quali San Francesco o Padre Pio che, come lo stesso Pavolini, hanno trovato più avversari presso chi doveva esser loro più vicino proprio perché, con l’esempio, ne mettevano a nudo la mistificazione e la menzogna. Non ci azzarderemo a parlare del comandante Massoud perché le differenze di modello culturale sono tante. Ma come non pensare ad Ernesto Guevara, detto El Che, ribelle argentino, rivoluzionario in Cuba, che abbandonò una poltrona ministeriale per andare a farsi ammazzare in Bolivia da guerrigliero ? « Rivoluzione è trasportare i valori della guerriglia nella vita di tutti i giorni » ebbe a dire. Non così diverso da Pavolini anche se molto meno fortunato per esser divenuto simbolo di merchandising presso i rampolli del consumismo occidentale.
Ma tra Pavolini e Che Guevara vi sono un paio di differenze rilevanti che rendono più interessante il fiorentino.
La prima è che il credo pavoliniano è tutto improntato sull’essenzialità e sull’esempio allorché l’ideologia di riferimento del Che, funzionale, pragmatica ed utilitaria nella metodologia, fa del grande guerrigliero un’eccezione, un’eresia. Ed il fascismo, invece è ortodossia dell’eresia o se vogliamo eresia continua che assurge alla dignità di norma.
La seconda è che Pavolini è politicamente e programmaticamente attuale, avendo già, con sei decenni d’anticipo, risposto alla globalizzazione.
Una globalizzazione che già identificava nelle sue componenti, visto che per lui il fascismo repubblicano intendeva combattere tutte le internazionali del potere.Quelle economiche, finanziarie, religiose e politiche. Ossia le diverse strutture portanti dell’ideologia globale.
Ma Pavolini è andato oltre nella risposta alla minaccia incombente. Lo ha fatto negli orientamenti (il Nuovo Ordine Europeo poliarchico ed etniarchico anticipa le soluzioni imperiali europee a vocazione eurasiatica che rappresentano la prima alternativa al mondialismo, un’alternativa che oggi seppur vagamente e faticosamente sembra prender forma) ; e lo ha realizzato nelle attuazioni pratiche. Le sue scelte sia dal punto di vista organizzativo (territorializzazione, binomio decentramento-coordinamento, assemblearismo) che da quello socioeconomico (superiorità del lavoro sul capitale, valorizzazione della produttività cogestita) vanno nel senso della localizzazione armonica, dell’autonomia e della partecipazione diretta.
Le scelte selettive ed operative fondate sul sacrificio, sull’onere e sulla generosità a tutti i livelli (sacrificio della vita, solidarietà, assistenza ai bisognosi) gettano le basi di un’autentica élite.
In altre parole, nell’attuazione pavoliniana dell’insegnamento di Mussolini troviamo tutte le risposte per il nostro domani. Un domani che non può non coniugare l’idea di Europa, l’economia sociale, la partecipazione e, come garanzia di tutto, un’eutentica élite povera e dedita al servizio. Un domani, insomma, frugale, spartano, solidale e vincente.
Per questo, o meglio, anche per questo, ci par cosa giusta e fruttuosa andare a vederlo una volta di più questo fascismo sansepolcrista, squadrista, futurista, fiumano, volontario, repubblicano.
Questo fascismo che ha nobilitato l’intero passato italiano, l’impeto risorgimentale, che ha rinnovato e nobilitato il socialismo, che ha scritto le poche ma grandi pagine di storia dell’Italia unita ed ha lasciato dopo di sé non solo uova di drago ma germogli di sempreverde.
Fascismo allora come spunto, esempio e orientamento. Fascismo come ritorno al futuro.
L'unica cultura che riconosco è quella delle idee che diventano azione.
Ezra Pound
Domenico Riccio
«Se un uomo non è disposto a correre dei rischi per le sue idee, vuol dire che le sue idee non valgono nulla o che non vale nulla lui». Me lo disse per la prima volta l’onorevole Beppe Niccolai dopo un rischioso comizio tenuto da Marco Cellai in piazza San Michele a Lucca verso la metà degli anni ’70. Assaltati a più riprese da una democratica massa di estremisti di sinistra, che era intervenuta a Lucca da mezza Toscana per impedire alla destra di parlare, se la polizia che ci difendeva avesse ceduto, per noi sarebbe stata la fine. «Non sono parole mie -aggiunse Niccolai- ma di Ezra Pound, il grande autore dei Canti Pisani». «Di chi?», chiesi io, che non lo avevo mai sentito nominare e non avevo neanche ben compreso quel nome straniero. Beppe Niccolai mi guardò con estrema severità, rimproverandomi aspramente con gli occhi per quella mia ignoranza e, senza dubbio perché deluso e adirato, non mi rispose. Capii allora che per uno di destra era una mancanza che doveva essere colmata. Domandai ad un amico professore e questi, non appena gli feci il nome alquanto storpiato di Ezra Pound, mi ridisse la frase di Niccolai, che era dunque conosciuta, ma non volle, o forse non seppe, dirmi altro. Mi segnai comunque la frase. Mi piacque, la feci mia, cercai di metterla in pratica ed ora sono certo che mi ha fortemente condizionato, forse per l’intera vita. Qualche anno più tardi trovai su una rivista di destra alcuni dei suoi famosi aforismi, ma il primo libro che mi è capitato fra le mani è stato quello di Giano Accame pubblicato nel 1995 col titolo "Ezra Pound economista – contro l’usura". Un ottimo libro, molto chiaro. Lo lessi nel giro di un paio di giorni e presi anche degli appunti, che mi piace riproporre. Il grande poeta dei "Cantos" non beveva, non fumava e vestiva come gli capitava; non aveva automobile, spendeva poco, non ebbe mai debiti, né problemi personali con gli usurai. L’avversione all’usura fu quindi disinteressata, tutta concettuale. Ha fatto della sua opera e della sua vita una crociata contro l’usura, definita nei "Cantos" la bestia centipede che soffoca il figlio nel ventre. Si prodigava molto per i suoi amici artisti. Scrisse Hemingway: «Ezra Pound dedica un quinto del suo tempo lavorativo a scrivere poesie. Nel tempo restante cerca di promuovere il futuro, sia materiale che artistico, dei suoi amici». Sposato con Dorothy, amava anche la musicista Olga Rudge, dalla quale ebbe un figlio. E la moglie lo ricambiò andando in Egitto e rimanendo a sua volta incinta con un altro. Nella sua poesia irrompe l’economia. Nei "Cantos" l’economia occupa la parte che nella "Divina Commedia" di Dante è quella del sapere teologico. Si sentiva un riformista economico. E quando venne in Italia, la nazione in cui si è trovato meglio, le sue simpatie per Mussolini erano soprattutto in funzione di farsi accettare come tale. Voleva che la sovranità economica fosse nelle mani dei popoli e non dei mercanti di denaro. Fu tra i primi a sostenere che bisognava lavorare meno per lavorare tutti. «Tecnici di buon senso e uomini saggi -sosteneva Pound nel suo ABC of economics- ci assicurano che la questione della produzione è risolta. L’apparato produttivo mondiale può produrre tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno. Non c’è la minima ragione di dubitarne. Con l’aumento dell’efficienza meccanica, la produzione di cui si è ora parlato richiederà sempre meno tempo e fatica umana. In una sana economia questa fatica, per varie ragioni, dovrebbe essere distribuita fra una quantità molto considerevole di persone... Lascia lavorare l’uomo quattro ore per la paga o, se lui desidera lavorare ancora, lascialo lavorare come ogni artista o poeta, lasciagli abbellire la casa o il giardino o allungare le gambe in qualche forma di esercizio o piegare la schiena su un tavolo da gioco e star seduto sul suo sedere e fumare... Lo so, non dalla teoria ma dalla pratica, che potete vivere infinitamente meglio con pochissimi soldi ed un mucchio di tempo libero anziché con più soldi e meno tempo. Tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto». Simpatizzante del fascismo, non era fascista (non si iscrisse mai né al partito né ad organizzazioni collaterali) e non era anticomunista. Nel 1931 dichiarò: «Il partito comunista in Russia e il partito fascista in Italia sono degli esempi di una aristocrazia attiva. Vi sono i migliori elementi, pragmatici, coscienti, gli elementi più riflessivi e volitivi delle loro nazioni». E faceva spesso paragoni positivi tra Mussolini e Lenin, più libero quest’ultimo perché «non aveva il Vaticano nel suo giardino», pensando che le due rivoluzioni del secolo (bolscevica e fascista) dovessero essere intercomunicanti. La stessa cosa provò anche il suo amico Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo. Scambiò il fascismo per un sistema di libertà perché in Italia ci stava bene e, dopo aver provato l’intolleranza americana (era stato buttato fuori dall’università per aver ospitato una notte, pare anche innocentemente, un’attricetta squattrinata che non sapeva dove andare a dormire), ci si sentiva più libero. Era un pacifista, un non violento, e non gli piacevano le divise. Fu l’unico poeta ammesso alla Bocconi, la più importante università commerciale, a tenere un ciclo di conferenze sull’economia. Ma i suoi progetti di riorganizzazione economica nazionale ed internazionale furono liquidati dalla segreteria del Duce con note ad uso interno come questa: si tratta di un progetto strampalato concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà. Qualcuno ha detto: «Pound non ha capito il fascismo e il fascismo non ha capito Pound». Alla nascita della Repubblica Sociale Italiana, si entusiasmò per i 18 punti di Verona del Partito Fascista Repubblicano e sperò che, dopo la socializzazione delle imprese, Mussolini accettasse anche i suoi princìpi di riforma economica e confuciana. Si definì fascista di sinistra e nei cantos 72 e 73 esalta gli ideali, pur cominciando con le parole guerra di merda. Nel canto 72 molto bello e intenso l’incontro di tipo dantesco con lo spirito di Marinetti, morto il 2 dicembre 1944. Nella rivista "Italia e Civiltà" si leggeva: «Sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compagni, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il loro nemico». Era anche il pensiero di Ezra Pound. «Questa guerra non fu cagionata da un capriccio di Mussolini né di Hitler. Questa guerra -sostenne Ezra Pound- fa parte della guerra millenaria tra usurai e contadini, fra l’usurocrazia e chiunque fa una giornata di lavoro onesto con le braccia o con l’intelletto».
«Per questa affermazione -scrive Giano Accame- finì in manicomio». Accusato di tradimento dagli USA già nel luglio 1943, fu arrestato il 3 maggio del 1945 e portato a Pisa presso il Disciplinary Training Center, dove fu rinchiuso in una gabbia per gorilla e trattato peggio di una bestia per tre settimane. Dovette combattere contro se stesso per non impazzire. Il 18 novembre, dopo aver scritto in infermeria i "Canti Pisani", che sono il meglio della sua opera poetica, fu trasferito in America dove, senza processo, fu dichiarato infermo di mente e chiuso per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeths. Nel marzo del 1949 Eugenio Montale lo presentò ai lettori italiani con un articolo sul "Corriere della Sera" intitolato "Fronde d’alloro in un manicomio". «Poesie di un pazzo? -scrisse Montale a proposito dei "Cantos"- Nemmeno per sogno, a meno che non si vogliano considerare come pazzi i tre quarti degli scrittori d’avanguardia contemporanei. L’opinione corrente è che Ezra sia stato considerato pazzo per salvarlo dal carcere perpetuo o dalla pena di morte». Molte personalità americane e molti altri scrittori e poeti italiani, tra cui Giovanni Papini, Riccardo Bacchelli, Piero Bigongiari, Giorgio Caproni, Libero de Libero, Carlo Bo, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alberto Moravia, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Alessandro Parronchi, Clemente Rebora, Umberto Saba, Ignazio Silone, Giuseppe Ungaretti e Cesare Zavattini, chiesero a più riprese la sua liberazione. La stessa cosa fece anche José V. de Pina Martins da Radio Vaticana. Uscì dal manicomio il 7 maggio 1958 e si imbarcò per l’Italia con la moglie Dorothy e l’amica Marcella. All’arrivo fece il saluto romano e disse che l’America era tutta un manicomio. È morto il 1° novembre del 1972, quando io avevo già 22 anni. Avrei potuto incontrarlo e parlarci!
Domenico Riccio
Domenico Riccio
«Se un uomo non è disposto a correre dei rischi per le sue idee, vuol dire che le sue idee non valgono nulla o che non vale nulla lui». Me lo disse per la prima volta l’onorevole Beppe Niccolai dopo un rischioso comizio tenuto da Marco Cellai in piazza San Michele a Lucca verso la metà degli anni ’70. Assaltati a più riprese da una democratica massa di estremisti di sinistra, che era intervenuta a Lucca da mezza Toscana per impedire alla destra di parlare, se la polizia che ci difendeva avesse ceduto, per noi sarebbe stata la fine. «Non sono parole mie -aggiunse Niccolai- ma di Ezra Pound, il grande autore dei Canti Pisani». «Di chi?», chiesi io, che non lo avevo mai sentito nominare e non avevo neanche ben compreso quel nome straniero. Beppe Niccolai mi guardò con estrema severità, rimproverandomi aspramente con gli occhi per quella mia ignoranza e, senza dubbio perché deluso e adirato, non mi rispose. Capii allora che per uno di destra era una mancanza che doveva essere colmata. Domandai ad un amico professore e questi, non appena gli feci il nome alquanto storpiato di Ezra Pound, mi ridisse la frase di Niccolai, che era dunque conosciuta, ma non volle, o forse non seppe, dirmi altro. Mi segnai comunque la frase. Mi piacque, la feci mia, cercai di metterla in pratica ed ora sono certo che mi ha fortemente condizionato, forse per l’intera vita. Qualche anno più tardi trovai su una rivista di destra alcuni dei suoi famosi aforismi, ma il primo libro che mi è capitato fra le mani è stato quello di Giano Accame pubblicato nel 1995 col titolo "Ezra Pound economista – contro l’usura". Un ottimo libro, molto chiaro. Lo lessi nel giro di un paio di giorni e presi anche degli appunti, che mi piace riproporre. Il grande poeta dei "Cantos" non beveva, non fumava e vestiva come gli capitava; non aveva automobile, spendeva poco, non ebbe mai debiti, né problemi personali con gli usurai. L’avversione all’usura fu quindi disinteressata, tutta concettuale. Ha fatto della sua opera e della sua vita una crociata contro l’usura, definita nei "Cantos" la bestia centipede che soffoca il figlio nel ventre. Si prodigava molto per i suoi amici artisti. Scrisse Hemingway: «Ezra Pound dedica un quinto del suo tempo lavorativo a scrivere poesie. Nel tempo restante cerca di promuovere il futuro, sia materiale che artistico, dei suoi amici». Sposato con Dorothy, amava anche la musicista Olga Rudge, dalla quale ebbe un figlio. E la moglie lo ricambiò andando in Egitto e rimanendo a sua volta incinta con un altro. Nella sua poesia irrompe l’economia. Nei "Cantos" l’economia occupa la parte che nella "Divina Commedia" di Dante è quella del sapere teologico. Si sentiva un riformista economico. E quando venne in Italia, la nazione in cui si è trovato meglio, le sue simpatie per Mussolini erano soprattutto in funzione di farsi accettare come tale. Voleva che la sovranità economica fosse nelle mani dei popoli e non dei mercanti di denaro. Fu tra i primi a sostenere che bisognava lavorare meno per lavorare tutti. «Tecnici di buon senso e uomini saggi -sosteneva Pound nel suo ABC of economics- ci assicurano che la questione della produzione è risolta. L’apparato produttivo mondiale può produrre tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno. Non c’è la minima ragione di dubitarne. Con l’aumento dell’efficienza meccanica, la produzione di cui si è ora parlato richiederà sempre meno tempo e fatica umana. In una sana economia questa fatica, per varie ragioni, dovrebbe essere distribuita fra una quantità molto considerevole di persone... Lascia lavorare l’uomo quattro ore per la paga o, se lui desidera lavorare ancora, lascialo lavorare come ogni artista o poeta, lasciagli abbellire la casa o il giardino o allungare le gambe in qualche forma di esercizio o piegare la schiena su un tavolo da gioco e star seduto sul suo sedere e fumare... Lo so, non dalla teoria ma dalla pratica, che potete vivere infinitamente meglio con pochissimi soldi ed un mucchio di tempo libero anziché con più soldi e meno tempo. Tempo non è denaro, ma è quasi tutto il resto». Simpatizzante del fascismo, non era fascista (non si iscrisse mai né al partito né ad organizzazioni collaterali) e non era anticomunista. Nel 1931 dichiarò: «Il partito comunista in Russia e il partito fascista in Italia sono degli esempi di una aristocrazia attiva. Vi sono i migliori elementi, pragmatici, coscienti, gli elementi più riflessivi e volitivi delle loro nazioni». E faceva spesso paragoni positivi tra Mussolini e Lenin, più libero quest’ultimo perché «non aveva il Vaticano nel suo giardino», pensando che le due rivoluzioni del secolo (bolscevica e fascista) dovessero essere intercomunicanti. La stessa cosa provò anche il suo amico Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo. Scambiò il fascismo per un sistema di libertà perché in Italia ci stava bene e, dopo aver provato l’intolleranza americana (era stato buttato fuori dall’università per aver ospitato una notte, pare anche innocentemente, un’attricetta squattrinata che non sapeva dove andare a dormire), ci si sentiva più libero. Era un pacifista, un non violento, e non gli piacevano le divise. Fu l’unico poeta ammesso alla Bocconi, la più importante università commerciale, a tenere un ciclo di conferenze sull’economia. Ma i suoi progetti di riorganizzazione economica nazionale ed internazionale furono liquidati dalla segreteria del Duce con note ad uso interno come questa: si tratta di un progetto strampalato concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà. Qualcuno ha detto: «Pound non ha capito il fascismo e il fascismo non ha capito Pound». Alla nascita della Repubblica Sociale Italiana, si entusiasmò per i 18 punti di Verona del Partito Fascista Repubblicano e sperò che, dopo la socializzazione delle imprese, Mussolini accettasse anche i suoi princìpi di riforma economica e confuciana. Si definì fascista di sinistra e nei cantos 72 e 73 esalta gli ideali, pur cominciando con le parole guerra di merda. Nel canto 72 molto bello e intenso l’incontro di tipo dantesco con lo spirito di Marinetti, morto il 2 dicembre 1944. Nella rivista "Italia e Civiltà" si leggeva: «Sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compagni, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il loro nemico». Era anche il pensiero di Ezra Pound. «Questa guerra non fu cagionata da un capriccio di Mussolini né di Hitler. Questa guerra -sostenne Ezra Pound- fa parte della guerra millenaria tra usurai e contadini, fra l’usurocrazia e chiunque fa una giornata di lavoro onesto con le braccia o con l’intelletto».
«Per questa affermazione -scrive Giano Accame- finì in manicomio». Accusato di tradimento dagli USA già nel luglio 1943, fu arrestato il 3 maggio del 1945 e portato a Pisa presso il Disciplinary Training Center, dove fu rinchiuso in una gabbia per gorilla e trattato peggio di una bestia per tre settimane. Dovette combattere contro se stesso per non impazzire. Il 18 novembre, dopo aver scritto in infermeria i "Canti Pisani", che sono il meglio della sua opera poetica, fu trasferito in America dove, senza processo, fu dichiarato infermo di mente e chiuso per dodici anni nel manicomio criminale di St. Elizabeths. Nel marzo del 1949 Eugenio Montale lo presentò ai lettori italiani con un articolo sul "Corriere della Sera" intitolato "Fronde d’alloro in un manicomio". «Poesie di un pazzo? -scrisse Montale a proposito dei "Cantos"- Nemmeno per sogno, a meno che non si vogliano considerare come pazzi i tre quarti degli scrittori d’avanguardia contemporanei. L’opinione corrente è che Ezra sia stato considerato pazzo per salvarlo dal carcere perpetuo o dalla pena di morte». Molte personalità americane e molti altri scrittori e poeti italiani, tra cui Giovanni Papini, Riccardo Bacchelli, Piero Bigongiari, Giorgio Caproni, Libero de Libero, Carlo Bo, Alfonso Gatto, Mario Luzi, Alberto Moravia, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Alessandro Parronchi, Clemente Rebora, Umberto Saba, Ignazio Silone, Giuseppe Ungaretti e Cesare Zavattini, chiesero a più riprese la sua liberazione. La stessa cosa fece anche José V. de Pina Martins da Radio Vaticana. Uscì dal manicomio il 7 maggio 1958 e si imbarcò per l’Italia con la moglie Dorothy e l’amica Marcella. All’arrivo fece il saluto romano e disse che l’America era tutta un manicomio. È morto il 1° novembre del 1972, quando io avevo già 22 anni. Avrei potuto incontrarlo e parlarci!
Domenico Riccio
L'Usarkozy canonico
Il Presidente francese, fresco fresco del suo voltafaccia pro-Turchia, sarà insignito di un titolo guelfo.
Nicolas Sarkozy oggi in visita al Vaticano sarà insignito del titolo di “Canonico d'onore di San Giovanni in Laterano”, un titolo che la Curia offre alle più alte cariche francesi fin dai tempi di Enrico IV.
Senza aver mosso un rifiuto formale, comunque i Presidenti Georges Pompidou e François Mitterrand non si sono mai recati a raccogliere l'onorificenza. Gli altri Presidenti della V Repubblica avevano invece preso possesso di quel fregio che dà teoricamente il diritto di entrare a cavallo nella Basilica.
La Francia ancora divisa tra proiezione ghibellina e tendenza guelfa. E, tanto per non sbagliare, i Presidenti migliori sono stati ancora e sempre di stampo ghibellino.
Da noreporter.org
Il Presidente francese, fresco fresco del suo voltafaccia pro-Turchia, sarà insignito di un titolo guelfo.
Nicolas Sarkozy oggi in visita al Vaticano sarà insignito del titolo di “Canonico d'onore di San Giovanni in Laterano”, un titolo che la Curia offre alle più alte cariche francesi fin dai tempi di Enrico IV.
Senza aver mosso un rifiuto formale, comunque i Presidenti Georges Pompidou e François Mitterrand non si sono mai recati a raccogliere l'onorificenza. Gli altri Presidenti della V Repubblica avevano invece preso possesso di quel fregio che dà teoricamente il diritto di entrare a cavallo nella Basilica.
La Francia ancora divisa tra proiezione ghibellina e tendenza guelfa. E, tanto per non sbagliare, i Presidenti migliori sono stati ancora e sempre di stampo ghibellino.
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