giovedì 20 dicembre 2007

In ricordo di Yukio Mishima.


“Non posso continuare a nutrire speranze per il Giappone futuro.Ogni giorno si acuisce in me la certezza che, se nulla cambierà, il “Giappone”È destinato a scomparire.Al suo posto rimarrà, in un lembo dell’Asia estremo-orientale,Un grande Paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto.Con quanti ritengono che questo sia tollerabile, Io non intendo parlare.” Yukio Mishima,7 luglio 1970.


Il 25 novembre del 1970, Yukio Mishima, assieme ad alcuni membri dell’Associazione degli Scudi, l’organizzazione paramilitare da egli fondata, si introdusse negli uffici dello Stato Maggiore dell’Esercito di Difesa giapponese. Qui, davanti alle telecamere, dopo aver dato lettura del suo testamento politico e spirituale, scelse di morire attraverso il seppuku, tradizionale rituale di abbandono della vita riservato ai samurai che avevano padronanza assoluta del proprio destino. Il mattino stesso aveva consegnato al proprio editore l’ultima parte della sua monumentale tetralogia, “Il mare della fertilità”, terminata da tre mesi, ma sulla cui ultima pagina, come si trattasse di un penultimo testamento, era impressa proprio la data finale.Le parole dello scrittore, attore, regista, capace tanto di penetrare a fondo, senza infingimenti né ingenuità, nella modernità a lui circostante, quanto di esprimere con assoluta solennità la grandezza di una tradizione complessa e millenaria, sono furenti come un’onda pronta ad abbattersi su uomini e scogli, e severe come fredda roccia di montagna. Mishima parla sulla base di una Visione della Vita che trascende la vita stessa. Nel cuore di quell’Esercito di Difesa ridotto a semplice e vuota struttura amministrativa in seguito alla sconfitta del Giappone, Mishima lancia il suo ultimo monito ad una Nazione non più tale, perché ha rinunciato a sé stessa, esposta ad una sorte, quella della perdita della propria sacralità, ben peggiore di quanto non sarebbe potuta essere la distruzione totale. Le sue parole non paiono cedere ad alcuna indulgenza, in esse non vi è alcuna traccia di auto-assoluzione che possa, in qualche modo, lenire il dolore assoluto, estremo, radicale per ciò che è stato e ciò che non sarà più. Se il Giappone, se la terra figlia della dea Amaterasu si trova ridotta in stato di servaggio tanto materiale quanto spirituale, la colpa è anche di un popolo e di una classe politica che si sono lasciate docilmente sottomettere, lanciandosi con uno sciocco sorriso stampato sulle labbra verso “il nuovo senza volgersi alla tradizione, piombare in una utilitaristica ipocrisia, sprofondare la sua anima in una condizione di vuoto”. Mishima ha saputo prevedere la piega che il mondo avrebbe preso negli anni a venire, l’orrendo ghigno nascosto sotto l’apparente letizia del “nuovo ordine mondiale”, la sua intima perversione in grado di ridurre l’uomo a mero strumento produttivo, annullando tutto quanto potesse porsi al di sopra di lui, nel senso di realtà metapolitica e metaforica, e tutto quanto potesse costituire una rete di rapporti interpersonali fondati su concetti non mediati da interessi materiali in sé compientisi, ma fondati su un intero universo di riferimenti resi lettera morta dall’affermazione di un’assenza, di un vuoto. Un mondo costruito sul concetto di irrimediabile contrarietà a tutto ciò che esulasse da schemi predefiniti finalizzati al puro benessere materiale ed alla sazietà di un’anima ridotta a contenitore di forme di largo e rapido consumo.“Avete tanto cara la vita da sacrificarle l’esistenza dello spirito?”, chiede Mishima ai soldati ed ai Giapponesi in una delle ultime parti del Proclama. In queste parole, è affermato uno dei principi fondamentali dell’etica samurai, alla quale Mishima si è sempre richiamato nel più profondo senso spirituale, senza indulgere in estetismi (lui che pure aveva compreso appieno il significato dell’immagine e della multiforme rappresentazione di sé) privi di intima adesione morale ed umana: la preminenza dei concetti di onore, fedeltà e lealtà alla stessa esistenza biologica personale. Il donarsi totalmente, giungendo appunto alla soppressione fisica di sé stessi, per qualcosa che va oltre i criteri di classificazione puramente utilitaristica imposti dalle nuove gerarchie universali. La “determinazione nella volontà di morire”, secondo i termini con i quali Yamamoto identificava il concetto di Bushido, ossia il codice d’onore del Bushi, il samurai, in nome di una Patria che non rappresenta solo un’estensione territoriale, un fattore di aggregazione sulla base di valori riconosciuti e condivisi, ma il senso ultimo di un’identità spirituale la cui perennità deve essere mantenuta anche a costo di rinunciare a sé, divenendo uomini totali, di totale coerenza, consci del proprio corpo e della propria fisicità ma capaci di sbarazzarsene come di un inutile fardello quando il momento richiede l’estremo sacrificio a compimento dei valori non disponibili e non contingenti sui quali poggia il senso stesso di tutto un Essere.Il sacrificio di Yukio Mishima e dei suoi camerati, reso ancora più solenne dalla crudezza delle immagini televisive, proprio perché l’incapacità dello schermo di raccontare l’essenza intrinseca di un gesto autentico ne rende ancora più impenetrabile e, di conseguenza, non volgarizzabile, l’irripetibile dignità, si è affrancato, nel momento stesso in cui si è compiuto, dalle angustie strettoie del tempo, della quotidianità. Non è stato solo un gesto storico. E’ stato un soffio di anima che conduce a chi ne voglia partecipare un messaggio ben preciso: stare in piedi tra le rovine va oltre e contro i concetti di utilità ed inutilità.


Marco Zenesini.


Da Storia del Novecento n. 80, dicembre 2008.

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