sabato 22 dicembre 2007

Nazione e Impero II.

I Romani non volevano che preservare la loro propria città, il loro proprio jus (poiché, per temperamento, concepivano tutto per il tramite del rito e del diritto). Ma, presso di loro, questa volontà di autenticità implicava logicamente il riconoscimento dell'Altro. È in questo che consiste la loro grandezza politica -- del che, tra parentesi, furono sempre perfettamente coscienti. E potremmo quasi affermare che l'impresa di conquista per Roma non fu che il «risvolto» di un'altra impresa, questa puramente difensiva. Non bisogna dìmenticare che dopo tutto il termine urbs viene da una radice indoeuropea che significa all'origine «rifugio protetto dalle acque». In un mondo in cui, a causa della rivoluzione neolitica, i popoli erano usciti dal loro isolamento ed entravano in un insieme complesso dì relazioni sempre più strette, l'imperium romano corrispondeva dunque a null'altro che all'allargamento progressivo della cinta protettrice dell'urbs. Costituiva il bastione dietro il quale il civis romanus era sicuro di poter vivere secondo il suo ritmo e il suo diritto, nella misura precisamente in cui gli altri, per necessaria differnziazione e logica reciprocità, godevano della stessa garanzia. Rifiuto organizzato e cosciente di ogni universalismo, di ogni reductio ad unum, l'imperium è tuttavia politico, cioè realista, e non utopico. Esso è gerarchizzato. Ciascuno vi conserva ii proprio jus, il proprio diritto: ogni popolo è libero di amministrare la sua città secondo la propria giustizia tradizionale. Ma nei rapporti che si stabiliscono tra individui di diverse città, o tra le città stesso, lo jus romanus prevale sempre sullo jus latinus, che a sua volta prevale su tutti gli altri. E là dove né lo jus romanus né lo jus latinus sono applicabili subentra lo jus gentium, astrazione prettamente romana per identificare ciò che sarebbe comune (o va comunque applicato) ai jura di tutti i popoli. In seno all'imperium Roma gode dunque di una primazia assoluta, che si esplica dei tutto naturalmente, e in perfetta giustizia, per il fatto che è essa che ha concepito e creato, che organizza e assicura quest'ordine in seno al quale ciascuno riceve il dovuto che gli è stato attribuito da una Storia che è fatum.Nel loro sogno d'artisti, i Greci avevano tentato anch'essi di realizzare la sintesi tra la fedeltà a ciò che erano e le esigenze fatali del loro impegnarsi in un mondo «allargato»... ma allargato soltanto nei limiti della ellenità. Si erano sforzati di conseguenza di «addomesticare» la guerra, ritualizzando l'aggressività naturale per mezzo di un'agoné (competizione) che abbracciava tutte le manifestazioni civili all'interno della polis. Con le Olimpiadi essi avevano ugualmente voluto assicurare, perlomeno periodicamente. un ordine panellenico. E la pace instaurata da quest'ordine sgorgava, significativamente, dalla messa in scena trionfale dell'agoné. Questo sogno ellenico, Roma l'ha vissuto e l'ha fatto vivere al mondo intero. I Romani non «addomesticano» la guerra. Tutto al contrario, essi la istituzionalizzano, sapendo che la guerra non è che uno dei due spettacoli perpetuamente offerti allo sguardo del dio bifronte. Perché la pace, la pax romana, è anch'essa istituzionalizzata. Essa non è più la contropartita di un gioco che permetta di «addomesticare» la guerra, ma la contropartita, all'interno dell'imperium, dell'ordine scaturito dalla guerra, ed anche dell'accettazione del principio dell guerra permanente tra i popoli dell'imperium e quelli che ancora non ne fanno parte. E poiché l'imperiurn rappresenta l'ordine consacrato dal fatum, molti popoli finiscono per fare appello ai Romani e domandare l'ammissione all`impero (salvo tentare di ritirarsene, una volta sistemati i propri affari: come i Galli, che fanno appello a Roma contro i Germani, quindi si ribellano, senza successo d'altronde, contro l'ordine cui essi stessi hanno fatto ricorso). «Regere imperio populos, Romane, memento / parcere victis ac debellare superbos»: tale la definizione che il poeta gallico che fu Virgilio propone della missione che i Romani si erano dati. Definizione tanto giusta che, quando Roma sarà sparita, i popoli d'Europa sentiranno vivamente ancora la nostalgia dell'ordine romano, e tenteranno vanamente, con tutti i mezzi, di ristabilirlo. Roma diventerà allora sinonimo di «ordine politico», e si darà il nome di Caesar, l'imperator per eccelienza, ai titolari del potere sovrano incaricati di assicurare l'ordine. Si potrebbe forse obbiettare che l'imperium condusse di fatto a quell'universalismo, a quel caos etnico che intendeva ricusare, e, d'altra parte, che esso non poté mantenersi che per qualche secolo, prima di decadere e sparire. «Orbi fecisti quod prius urbis erat», cantava in un inno a Roma un altro poeta celtico che si era dato il nome di Rutilio Numaziano, [alias]e che viveva sotto Onorio. Il poeta aveva ragione, ma si potrebbe aggiungere che Roma non l'aveva certo voluto. Tutto nella storia ha la sua misura. Nulla è eterno, né assoluto. Si tratta sempre di piegare la storia ad una volontà. di cercare di darle una forma. Nella breve giornata di storia che hanno vissuto, i Romani si sono affermati, rispetto e contro tutti, realizzando il solo progetto di imperium esistente. Essi l'hanno fatto tanto a lungo quanto a lungo ci sono stati. Giacché l'imperium non decade veramente se non quando non vi sono più Romani, se non quando «Roma non è più in Roma». Non ci si accorse forse subito che gli ultimi discendenti delle gentes erano morti sui campi di battaglia. O forse ce ne si accorse. Ma lo si nascose con cura. Si fece finta di credere che coloro che, ormai, si davano il nome di Romani, lo fossero davvero. L'ultimo dei Romani, lui, sapeva probabilmente ciò che ne era stato. Egli non ignorava la pietosa finzione dell'indomani, e seppe riderne a suo modo, crudele, sovranamente pieno di disprezzo, e tuttavia di compassione. Forse, quando elevò il suo cavallo alla dignità di console o di senatore, voleva far sapere sottilmente che dal momento in cui non vi erano più Romani autentici, tutti potevano essere Romani... Con la rivoluzione industriale, l'umanità è entrata oggi in un periodo di planetarizzazione. Nessun popolo può sottrarsi a questa prospettiva planetaria, o sognare di un impossibile isolamento. Un ordine planetario è obbligatorio. Esso è fatale, a più o meno breve scadenza. La Grande Politica di domani non potrà essere concepita e perseguita altro che avendo ciò che Ernst Jünger chiama il Weltstaat, l'ordine mondiale, come movente e come fine. I sintomi si manifestano già: Società delle Nazioni, poi Nazioni Unite, sul piano dell'utopia; impero sovietico, impero americano nei fatti. Ma tutto porta a credere che gli Stati Uniti, come l'Unione Sovietica, non siano capaci di essere la Roma di domani. Questi «blocchi», che cercano di organizzare come possono i mezzi di potenza messi a loro disposizione dalla rivoluzione tecnologica, ricordano piuttosto l'Egitto dei faraoni e le teocrazie della Mezzaluna fertile. Resta nondimeno il fatto che la planetarizzazione che si opera esige un ordine cosmico. Quest'ordine sarà «imperiale» o al contrario «repubblicano» nel senso francese del termine, cioè egualitarista? Nessuno può dirlo, perché l'avvenire storico è libero. Possiamo soltanto impegnarci in un senso o nell'altro. La soluzione ugualitaria, che sbocca nella «Repubblica universale», implica la riduzione ad unum dell'umanità, l'avvento di un «tipo universale» e l'uniformizzazione globale. La soluzione «imperiale», lo ripetiamo, è gerarchica. Se la libertà, nella dialettica ugualìtaria, non è che un assoluto che si oppone ad un altro assoluto (la negazione della libertà), nella dialettica «imperiale», essa non è che un relativo, direttamente legato alla nozione di responsabilità sociale. Nell'ímperium, l'assoluto è il diritto del migliore secondo la virtù dell'umanità dei suo tempo. Ma l'imperium è anche il solo mezzo di preservare le differenze dentro (e attraverso) una prospettiva planetaria, tramite un unicuique suum che riconosce implicitamente il fatto fondamentale dell'ineguaglianza dei valori e delle identità. Da uno stretto punto di vista psicologico, l'avversione che manifestano molti autonomisti e regionalisti per l'idea «repubblicana» egualitaria, è perfettamente giustificata. Essi infatti si ingannerebbero gravemente immaginando che la sostituzione di un ordine «universalista» all'ordine esistente basterebbe a risolvere i loro problemi. Perché la «Repubblica» concepita dagli uomini del 1789 non è altro che la prefigurazione, a livello nazionale, di uno Stato mondiale egualitario, più riduttore e livellatore ancora di quanto i giacobini mai siano stati.

Giorgio Locchi

Da L'Uomo Libero n.9, 1/1/1982.

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