sabato 22 dicembre 2007

Nazione e Impero. Di Giorgio Locchi.

Nazione e Impero
Di Giorgio Locchi


L'idea di nazione in Francia, Italia e Germania - La struttura politica indoeuropea e quella dei Romani - Salvaguardia delle diversità in un'organicità sovranazionale.


Non si riflette mai abbastanza al fatto che vi sono due maniere di «avvertire», di pensare inconsciamente l'idea di nazione, due maniere che scaturiscono direttamente dalla dicotomia caratterizzante la storia dell'Europa occidentale. Se ci accordiamo -- salvo meglio precisare il concetto in seguito -- di considerare la nazione come una comunità fondata su (e da) una lingua, una civiltà e una «sorte comune», ci si accorge immediatamente. per esempio, che nel caso della Francia la nazione è nata dall'impresa laboriosa di uno Stato («i quaranta re...»), mentre nel caso della Germania o dell'Italia lo Stato ha costituito l'esito, la «traduzione» in termini politici, di una coscienza nazionale che si era infine destata. Ciò che potremmo chiamare una «nazione-effetto» si oppone così a una «nazione-causa». Nell'«esagono» francese di cui i Romani, con la loro amministrazione, avevano per primi tracciato i contorni approssimativi, popolazioni ben diverse si erano sovrapposte o si affiancavano dopo la decomposizione dell'impero. Nella stessa epoca, ricordiamolo, il concetto di gentes si rivelava insufficiente a cogliere le nuove realtà etnopolitiche, e lasciava il posto poco a poco a quello di nationes. Tutti sanno come in seguito una di queste «nazioni» comprese nell'Esagono, la nazione franca, dovesse ridurre le altre ed assimilarle, imponendo loro, talvolta con la forza, la sua lingua, la sua concezione del diritto e la sua civiltà. Questo processo di assimilazione non si è compiuto senza «sbavature» ed esse sono ancora perfettamente percepibili nella realtà politica «francese» di oggi. E' evidente nondimeno che le antiche «nazioni» non-franche, anche quando ne sussistono emanazioni folcloristiche tuttora viventi, sono private, piaccia o no, di ogni vis politica. foss'anche potenziale. Ciò è talmente vero che i gruppi autonomisti non possono pensare l'autonomia delle loro etnie in una prospettiva in cui gli Stati esistenti fossero conservati (cioè nell'ordine politico internazionale attuale), e invece sono obbligati a proiettare l'idea autonomista in una prospettiva futura, europea (europeista) secondo alcuni, universale (universalista) secondo altri.Senza esserne talvolta pienamente coscienti, riconoscono così che essi non potrebbero essere realmente differenziati, cioè separati in rapporto alla Francia, fuorché un mondo in cui non vi fosse più né Francia, né d'altronde Inghilterra, Italia, Germania, Belgio o Paesi Bassi. Se si esamina ora il caso della Germania o dell'Italia, ci si accorge come Il panorama storico che si presenta ai nostri occhi sia rigorosamente differente, come si caratterizzi per tratti antitetici al panorama francese. I re franchi avevano in un certo senso «rovesciata» l'eredità politica romana. Essendosi separati dall'Impero a partire dall'843 (firma del trattato di Verdun). essi avevano parimenti rigettato l'idea imperiale, per votarsi ad un'impresa mirante alla riduzione al modello franco delle realtà etnopolitiche allora comprese nell'attuale territorio francese. Fu ciò che si può chiamare il regnum: il potere politico non organizzava più nazioni (prese in quanto tali nell'ambito dell'Impero) ma classi, certo originate più o meno dalle «nazioni», ma che di tale origine avrebbero rapidamente perso il ricordo. Al di là dei Vosgi, al contrario, presso i Teutschen, così come in Italia, l'idea di imperium restava presente, non cessava di assillare gli spiriti e dominava tutte le imprese politiche.Quest'idea, bisogna dirlo, non aveva allora che un carattere perfettamente irrealista. Il Sacro Romano Impero germanico (Heiliges Romisches Reich Deutscher Nation) non ebbe affatto più dell'apparenza di se stesso, quantunque l'idea imperiale fosse ancora abbastanza potente per imporre una «struttura» identica al destino dei popoli che ad essa si richiamavano. Dalle antiche nationes si formarono nel suo seno altre nazioni, ma esse non poterono mai acquisire una vera e propria coscienza politica. perché l'idea imperiale ereditata da Roma vi si opponeva. Così, Dante, per il quale l'uomo italiano si afferma in quanto fatto di lingua e di civiltà, invoca con tutti i suoi voti il veltro (il dux), cioè il Sacro Romano Imperatore, che è un tedesco. Dante, filo-imperiale, ma pur sempre fiorentino. vede nei suoi vicini pisani il «vituperio delle genti». Per lui l'Italia non è che «il bel paese ove il sì risuona». A quest'epoca, non vi è dunque una Germania, un'Italia, ma solo dei Tedeschi, solo degli Italiani. Perché una coscienza nazionale politica italiana o tedesca nascesse, era necessario che l'«apparenza» imperiale stessa svanisse. E' ciò che si verificò, in modo lento e impercettibile, sotto i colpi di una Storia sempre brutale per coloro che si ostinano in un sogno. La guerra dei trent'anni, le dominazioni straniere che fecero dell'Italia un campo di battaglia umiliato e sanguinante, marcano i punti culminanti di questo processo. Ma ciò era ancora insufficiente. Bisognava ancora che sparisse e crollasse tutto ciò che, nei fatti, era legato per opposizione all'Impero: in primo luogo la chiesa cattolica, che ne era l'antitesi intima, e per altro verso il Regno, che ne era l'antititesi esterna. Il che si produsse sotto l'influenza della rivoluzione del 1789, che costituì il compimento di un'evoluzione storica particolare della Francia; poi del Romanticismo, che al contrario reagì (in Germania almeno) alla diffusione delle idee rivoluzionarie. Nato da una negazione assoluta dell'idea di Impero, il regno di Francia aveva affermato, implicitamente come nei fatti, la supremazia di una natio sulle altre. Un'aristocrazia feudale di orígine germanica vi giocava, all'inizio, un ruolo abbastanza analogo a quello delle gentes romane nella nascita della civitas. Ma questa aristocrazia, per il fatto di non esprimere il potere sovrano, perse a poco a poco i suoi contorni etnici e la sua coscienza storica. Ciò avvenne in modo abbastanza complesso. L'aristocrazia francese si era trovata ad essere obbligata ad assimilare le aristocrazie delle altre nationes incorporate nell'Esagono. Ora, queste aristocrazie perpetuavano tendenze centrifughe apposte al tentativo reale di centralizzazione. In base a ciò, i re dovettero combattere la classe aristocratica, o perlomeno opporsi a talune sue pretese, anche se questa classe era stata in origìne uno dei pilastri del potere reale. Sappiamo cosa ne deriva. Avendo Luigi XIV definitivamente privata l`aristocrazia dei suoi poteri, avendola svuotata del suo significato politico e avendola trasformata in classe parassitaria grazie alle seduzioni di quella prigione dorata che fu la corte di Versailles, la rivoluzione diventava inevitabile. La rivoluzione francese tu essenzialmente antiaristocratica, prima di essere antimonarchica. al punto che non è esagerato dire che i «grand ancêtres» del 1789 non fecero in fin dei conti che spingere fino al suo termine naturale un processo che i «quaranta re» avevano già sviluppato durante i secoli. Questo amalgama che era la nazione francese, entrato nei fatti con la Rivoluzione, non fece che prendere atto di ciò che la classe privilegiata aveva perduto: con le proprie responsabilità, aveva perduto anche la sua giustificazione. Si arrivò così al concetto di Stato-nazione, che andava poco a poco ad imporsi, lungo il corso delle guerre rivoluzionarie, alla coscienza dei popoli europei. Formata infine, o più esattamente creata, dallo Stato, la «nazione» francese poteva ormai rivendicare la proprietà di questo medesimo Stato. Fu Ia repubblica francese. Di fronte a questa nazione trancese (e tanto più che essa era divenuta conquistatrice, sotto Napoleone) i popoli d'Europa, essendosi riconosciuti in quanto nazioni, vollero naturalmente esprimere parimenti il loro proprio Stato. In Germania e in Italia, questo movimento politico di «indipendenza» e di «unificazione nazionale» si confuse, sul piano delle idee, col romanticismo. Ma, siccome l'eredità storica era del tutto differente da quella della Francia, molti romantici italiani e tedeschi concepirono la nazione, e il diritto della nazione ad esprimersi in quanto Stato, in una forma radicalmente opposta alla concezione francese. Vi fu certo una corrente romantica (italiana e tedesca) che accetto le idee francesi tali quali erano, ovvero in quanto esse portavano ad un superiore grado di coscienza la volontà egualitaria cristiana. Non è evidenternente di questa corrente che noi trattiamo qui, ma del romanticismo più autenticamente italiano e tedesco, da cui sgorga, fino alla prima metà di questo secolo il «destino parallelo» dei popoli di questi due paesi. La nazione concepita dalla rivoluzione francese è una nazione democratica, fondamentalmente centralista, egualitaria e «anticlassista», seppure il suo egualitarismo ed «anticlassismo» non apparissero che sotto forma di un rilievo negatìvo, figurante nella legge. Al contrario la nazione dei «romantici» (prendiamo questo termine nel senso ristretto sopra specificata) non è di per se stessa né egualitaria né demo cratica né centralista. Ugualmente, dal punto di vista della logica «rivoluzionaria», una nazione, ogni nazione, è uguale di diritto a un'altra, a tutte le altre. Non è così invece nella concezione romantica italiana o tedesca, e lo stesso linguaggio si sforza di esprimere la differenza (là dove i francesi parlerebbero di nation, i tedeschi parleranno piuttosto di Volk). E così che il pur clericale Vincenzo Gioberti proclama a gran voce il primato degli italiani, mentre Johann Gottlieb Fichte [alias] vanta l'unicità del popolo tedesco, unico Volk in un mondo ove non rimangono altro che masse. Tutto ciò si spiega abbastanza facilmente. In Francia, il passaggio dalla nozione di Impero a quella di Regno comportava già, nei fatti, una sorta di «restringimento» dell'orizzonte geografico e mentale. II risultato obbligatorio di un tale ripiegamento su se stessi era la«France seule». E questo ripiego implicava anche, a più o meno lungo termine, che fosse riconosciuta l'eguaglianza con le altre nazioni, con l'Altro tout court. Al contrario, la fedeltà alla nozione di Impero doveva necessariamente sfociare nella visione di un vero e proprio «cosmos politico» comprendente tutti i popoli in un'organizzazione gerarchica. Nel momento in cui la coscienza nazionale dei popoli faceva la sua entrata sanguinosa nella storia d'Europa, Ludwig van Beethoven fa esplodere lo spirito del suo tempo componendo quella meravigliosa Nona Sinfonia [CD]che è l'inno alla gioia di tutta un'umanità la cui storia è divenuta planetaria. Lo stesso Beethoven straccia la dedica della sua Eroica quando Buonaparte viene cancellato da Napoleone, ma, d'altro lato. è assolutamente incapace di immaginare il canto del ritrovarsi dei popoli riuniti nel nuovo cosmo, senza un corifeo che lo susciti, lo conduca e l'organizzi. Ritroviamo qui, inestricabilmente mischiate, le «due anime nemiche» che abitavano il petto dei romantici... Ritorniamo all'idea romana di imperium, ed alla traduzione politica che ne è stata data. Le prime società indoeuropee, quali possiamo conoscerle tramite gli studi comparativi, rendono manifesto un contrasto abbastanza strano tra la severa disciplina esistente in seno alla cellula sociopolitica di base, la «famiglia patriarcale», il clan, e la tendenza invece abbastanza pronunciata ad una certa anarchia per tutto ciò che concerne i rapporti di queste cellule fra di loro. Di fatto, questo contrasto, che è strettamente legato alla dinamica della storia indoeuropea, non ci appare tale che in una prospettiva moderna. La realtà sociopolitica dell'epoca lontana (gli inizi del neolitico), in cui gli indoeuropei prendono posto nella storia, non è altro in effetti che quella di un gruppo ristretto: il clan. E i rapporti tra i clan sono pressapoco della stessa natura dei rapporti che si stabiliranno, in altre epoche, tra le città o tra gli Stati. Da ciò l'impressione, piuttosto illusoria, di «anarchia» che si può ricavare quando si prenda in considerazione l'unità etnica degli indoeuropei e si cerchi di sapere a cosa assomigliasse la loro società. Ora, non esisteva una società indoeuropea. Gli indoeuropei non concepivano sul piano sociopolitico alcuna grande unità, per l'eccellente ragione che essi non avevano (e non potevano avere) coscienza di ciò che, a nostri occhi. faceva la loro unità. A questa coscienza, gli indoeuropei non poterono pervenire che progressivamente, quando, in un'epoca molto più tarda, cominciarono a uscire dal loro isolamento e si trovarono a confrontarsi con altre etnie, con altre civiltà. Ciò non avvenne d'altronde con facilità, e quasi mai completamente. Le grandi coalizioni «supertribali» che si formarono in occasione di spedizioni migratorie e dei primi insediamenti in nuovi paesi, in mezzo a popoli differenti, furono generalmente di breve durata, e tesero a dissolversi. L'istituzione del potere regale, che, all'origine, assicurava unicamente l'organizzazione e la disciplina dell'orda nel corso dei suoi spostamenti (il re essendo etimologicamente «colui che mostra la strada da seguire»), non ebbe all'inizio che un carattere elettivo e provvisorio. Quand'essa tese, per sua propria natura, a consolidarsi ed a divenire ereditaria, incontrò sempre la resistenza dei capi dei clan, una volta completata la conquista. E' per questa ragione che la storia iniziale dei gruppi indoeuropei emigrati sotto altri cieli si confonde spesso con la lenta degradazione di un'autorità monarchica e la «ri-atomizzazione» del gruppo. Fu il caso, segnatamente, dei Greci e dei Celti. Altrove, l'istituzionalizzazione della monarchia si verificò, ma a spese di tutta una tradizione indoeuropea (tradizione culturale, ma anche genetica). Ciò avvenne presso i Nesos, che persero il loro nome per diventare gli Ittiti, e presso certe tribù germaniche che esaurirono il loro slancio sulle rive del Mediterraneo. In generale, i popoli indoeuropei hanno perfettamente percepito la necessità di preservare la propria originalità, pur accettando le conseguenze dell'allargamento dell'orizzonte culturale e geopolitico che imponeva loro il trionfo progressivo della «rivoluzione neolitica». Ma, limitandoci al mondo antico, soltanto i Romani sono riusciti a operare una sintesi tra perennità, fedeltà a se stessi ed alle proprie origini, ed accettazione piena e intiera della loro «intricazione cosmica». Questa sintesi porta un nome, inciso nella storia in lettere capitali: l'imperium. Diciamolo subito: la nozione di imperium non deve essere confusa con quella di Impero, fosse anche romano. Non c'è alcun dubbio in effetti, che 1'imperium ha trovato la sua verità e la sua più perfetta realizzazione nello sforzo di costruzione della Roma repubblicana, più che nell'impresa di mantenimento dell'Impero postgiuliano. Di fatto, l'imperium riflette una volontà di ordine cosmico, ed è quest'ordine che organizza gerarchicamente le gentes. In teoria come in pratica. 1'imperium si situa agli antipodi di ogni «universalismo». Esso non intende affatto ridurre le umanità a una sola e medesima umanità, ma cerca al contrario di preservare le diversità in un mondo necessariamente votato all'unificazione.

Nessun commento: